TOULOUSE-LAUTREC , Milano, Palazzo Reale 14/02/2018
Mostrare sapienza, intelletto, buon tratto e gusto è una base essenziale per essere artista. La fine dell’Ottocento non è stato un periodo semplice; inserirsi in un panorama artistico così intriso di genialità non era per niente facile. Serviva altro. Serviva uscire totalmente dal giro e scioccare le platee assuefatte dalla Belle Epoque, dai suoi cappellini di piume e dai vestiti costruiti sulle morbide e sensuali forme femminili senza, però, per carità, apparire volgari. Un ammasso di statue di cera dal risolino facile, contrito, mai sguaiato ma sinonimo di grande ilarità e coinvolgimento. Un giro di ventaglio per farsi aria e l’aplomb ricadeva pesante sugli astanti. Bastava poco, pochi gesti al momento giusto. Non se ne poteva più. Era il momento di cambiare qualcosa. In questo contesto appare un uomo assurdo. Due incidenti gli frantumano le gambe rendendolo un mezzo disabile per niente appetibile né dal punto di vista sociale né tantomeno da quello sessuale. Un uomo estroso, spiritoso, goliardico e capace di prendersi gioco di sé stesso ma sicuro di una cosa sopra ogni altra. Sicuro di avere un tratto in quelle mani che nessuno, nessuno al mondo, forse solo Leonardo da Vinci, aveva mai mostrato. Fermezza. Sicurezza. Gentilezza d’impostazione di un’immagine, all’epoca, oscena e di cattivissimo gusto, come i bordelli, ad esempio. Come può essere così semplice? La domanda è legittima. Non lo è. Non si può. Eppure lui può. “La Clownesse assise, Mademoiselle Cha-u-Kao” 1896 è qualcosa collocabile tra l’osceno e l’illegittima ignoranza; è ripugnante.

Stupenda. Caotica. Stanca di una stanchezza che riusciamo a percepire anche noi. Stanca della serata di lavoro in quel bordello, lo stesso bordello che potrebbe essere rappresentato con un mistificato club privé dei giorni nostri. La notte è lunga e le ragazze non si fermano mai. Lautrec ce le mostra per ciò che sono: oggetti pagati per il sollazzo degli uomini. A fine Ottocento possiamo bene immaginare che questa fosse una trasgressione al di là del consentito e fosse questo il motivo di tanta attrazione; ma oggi? Oggi sono solo ragazze, che pur di lavorare sono disposte a vendere il proprio corpo, pulendo la coscienza dei porci uomini, che comparno qualcosa, pensando sia in vendita volontariamente. Riflettiamo, va. Volontariamente ha un significato ben preciso ma non sono io a doverlo spiegare a nessuno, servirebbe che a farlo fosse qualcuno che risiede un poco più in alto di me. Siamo nel 2018 e la brutalità dovrebbe essere rimasta con l’Homo di Neanderthal. Lautrec ha precorso i tempi – non solo mostrando questo suo lato di spasmodico desiderio carnale – inventando il senso e, con esso anche il risultato, della pubblicità. L’anima del commercio. L’anima, prima di essere commerciale è pubblicitaria ma prima ancora di essere pubblicitaria è e resta solo anima. Vedere un’immagine che attragga l’occhio e convinca la mente a volere, a tutti i costi, qualcosa di specifico anche se non ben specificato è magia. Lui vendeva ballerine, vendeva burlesque, spogliarelliste, vendeva sesso, facciamola breve. Vendeva qualcosa che, nella sua anima, era preponderante. Questo disegno a matita ne è una grande dimostrazione: “Il sonno, ragazza di bordello addormentata”, 1896

Per vendere è bene conoscere il prodotto e, in questo caso lo conosceva benissimo: “Si dice che la porta della cortigiana sia come il fiore del gelsomino. Questo fiore ha un profumo straordinario e se di giorno è un bocciolo, la notte si schiude sopra un guanciale” cit. Non c’è molto altro da dire in questo senso. La definizione di oggetto pubblicitario, ben esposto e meticolosamente presentato ai potenziali acquirenti, trova, nei suoi cartelloni, un risultato di eccellente levatura. Trasecolo sul contenuto ma nessuno è qui per fare bigottismo contro un mago dell’arte. Anche perchè, e qui vorrei davvero aprire le vostre menti, Toulouse Lautrec non è solo sesso, soldi, bordelli e ballerine; è cavalli, con degli studi magistrali e stupefacenti quasi quanto quelli di Leonardo da Vinci;
è caricature, con le fotografie che si faceva scattare dal suo amico Lescau; è ritratti, è studi pittorici orientaleggianti; è un artista a tutto tondo ed è oggetto di uno studio tanto approfondito proprio perchè non resta mai uguale a sé stesso. Non importa che tutti lo ricordino per gli scandali sessuali, al giorno d’oggi viviamo di questo. Forse sarebbe meglio occuparci di eliminare i nostri mezzi uomini animali dalle strade. Focalizzarsi sull’oscenità di un passato la cui unica trasgressione era il Moulin Rouge fa abbastanza sorridere, tanto per restare in tema. Forse non ci siamo. E sono critica, molto critica. Sono arrabbiata con tutto il mondo che non capisce quello che sto dicendo perchè è esattamente quello che tutti vedono e fingono di non vedere. “Tanto succede agli altri, a me non tange”. Troppo facile, scusate. Cerchiamo qualche risvolto di una medaglia opprimente, cerchiamo di capire che la sottomissione femminile non è materia ottocentesca, anzi, l’esperienza insegna che al giorno d’oggi non è più solo sottomissione è una violenza ingestibile. Vorrei che l’arte sensibilizzasse il mondo rispetto al problema. Con questo, però, vorrei anche mostrarvi un Lautrec delicato e sensazionalmente infantile con quel tratto di matita unico e tremendamente riconoscibile. Il freddo, la pioggia, le intemperie, il vento, una donna, il suo ombrello e un cagnolino al suo fianco; senti il gelo sulla pelle mentre lo guardi e intanto ridi, ridi per la naturalezza con cui un tratto di matita ha lasciato su quel disegno una realtà immotivatamente troppo reale.
Lautrec era un mostro di sensibilità tanto quanto, causa, forse, i suoi terribili incidenti, era un mostro la cui lussuria giungeva prima ancora del suo stesso nome; ciò che ci rimane non può che farci ragionare. Ciò che ci rimane ci può solo fare del bene. Ci può far riflettere. Ed è solo l’introspettiva riflessione profonda che può, davvero, insegnare qualcosa.
Arianna Forni