“Stessa storia, stesso posto, stesso bar
stessa gente che vien dentro consuma e poi va
non lo so che faccio qui
esco un po’[…]”
(“Gli Anni”, 883, 1995, registrata nel 1994)
Siamo sempre nella nostra stessa storia, in quel bar sottocasa dove ci conoscono fin da bambini e sanno già cosa ordineremo e se vogliamo il cacao nel cappuccino; stessa gente, bella, brutta, simpatica, antipatica, di compagnia oppure assolutamente asettica. Non importa. Non siamo soli. “Non lo so che faccio qui”, non sappiamo dove andiamo, non abbiamo una meta precisa a meno che non ci sia una scadenza importante, un appuntamento, un meeting, un impegno, che sia anche dal parrucchiere ma che scandisca il nostro tempo. Per il resto è la perdizione. Il ticchettio dell’orologio del Cappellaio Matto (“Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie” Lewis Carroll, 1865) è una struggente tortura della goccia, lenta e inesorabilmente determinante. Il Tempo, quel tempo che ha cambiato molte cose.
Innanzi tutto ha cambiato noi stessi, ciò che siamo oggi sarà pure il frutto di ciò che abbiamo vissuto ieri ma non ha niente a che vedere con quell’io del passato e, conseguentemente, in modo totalmente analogo, non lo sarà nemmeno nell’io del nostro futuro. Cambiare, capire, crescere, farsi un’esperienza. Ognuno ha la sua e ognuno vive attraverso una visione di un’esperienza che può o non può essere quella giusta.
esperiènza (ant. esperiènzia, speriènza, speriènzia) s. f. [dal lat. experientia, der. di experiri: v. esperire]. – 1.a. Conoscenza diretta, personalmente acquisita con l’osservazione, l’uso o la pratica, di una determinata sfera della realtà (Vocabolario Treccani)
Ed ecco, infatti, ad impareggiabile dimostrazione di quanto l’esperienza sia un concetto drammaticamente soggettivo, appare la definizione del Vocabolario: è l’uso o la pratica di una determinata sfera della relatà. Chi ci dice che la tua realtà sia uguale a quella del resto del globo?
L’esperienza, vera o falsa che sia, giusta o sbagliata, cognitiva o psicologica ha, comunque, una sua logica sequenziale e sa adattarsi ai piaceri richiesti dal pubblico, il che impone un mutamento di espressione e di garanzia. Abbiamo già detto che gli slogan cartellonistici nascono, a fine ottocento, grazie a Toulouse-Lautrec (rimando a “Pubblicità e Commercio: Anima e Passione”). Nascono ma non muoiono, ed è proprio grazie all’esperienza, di qualche saggio precursore del moderno marketing, che il cartellone acquisisce un valore, non più solo visuale, anche e soprattutto, economico. Questo è un meccanismo imprescindibile per considerare il motivo per cui una fila di squattrinati artisti ha deciso di plasmare la sua arte su di un oggetto in vendita. Avevano la possibilità di farsi conoscere grazie alle loro doti e in più non erano più gratificati solo da quel grande plauso dell’élite cittadina, venivano addirittura pagati. Più merce si vendeva e più guadagnavano, più diventavano famosi. Il meccanismo si faceva interessante e nacquero i grafici pubblicitari. Artisti devoti a un marchio prima che ad un ideale. Mercenari. Il termine inglese graphic design venne usato per la prima volta nel 1922. Si è aperto un mondo ma, ahimé, se n’è chiuso un’altro. La produzione in serie ha escluso la componente artistica di molti oggetti quotidiani che, di conseguenza, hanno totalmente eliminato l’uso di immaginazione e sentimento personale nel proporre la vendita di quel determinato oggetto. In fin dei conti sono solo le ballerine di Toulouse-Lautrec a nascere nella sua testa per attrarre il pubblico. Il Campari, nel 1931, chiama Depero e gli dice cosa vuole; sarà un geniale esecutore di un progetto pubblicitario ma non sarà più l’artista con la sua immancabile eccellenza. Il 1930 ha segnato un boom secolare di pubblicità convincenti e legate alla moda femminile. Le donne sono vanitose, le donne vogliono essere le belle, le donne hanno i mariti che per farle contente compreranno qualsiasi cosa e allora: facciamo in modo che comprino. I cartelloni pubblicitari de La Rinascente sono, ormai, parte dell’arte pubblicitaria, sono storici, sono veramente all’avanguardia se inseriti negli anni ’30. Sono intrisi di eleganza, di raffinatezza, di una bellezza quasi innaturale. Sono efficaci.
Ora; pensiamo bene a una cosa prima di sentirci persi nel ticchettio dell’orologio da polso colti alla sprovvista da un ritardo perenne e impellente. Fermiamoci. Per le strade c’è tanta di quell’ “Arte” pubblicitaria da tenerci attaccati a un bamcomat senza via di fuga.
“Aiuto Aiuto, è tardi, è tardi”, gridava il Bianconiglio (“Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie” Lewis Carroll, 1865). Ne siamo proprio sicuri? O forse c’è qualcuno che vuole farcelo credere?
Arianna Forni