“Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi,
e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l’alto consiglio s’adempìa), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de’ prodi Atride e il divo Achille.”
(“Iliade”, Omero, si pensa che Pisistrato ne avesse disposto la stesura in forma scritta già nel VI sec. a.C.)
Questo è l’incipit più intensamente idilliaco della storia: “Cantami, o Diva, del Pelìde Achille”, da brividi. Ira. Persuasione. Gloria. Irriverenza. Forza. Raffinatezza. Eroico racconto dell’entusiasmante tripudio del dolore e della bellezza di un atto guerrigliero. Omero aveva, così, deciso di raccontare una devastazione; ha parlato della morte elevandola ad un grado di divinità superiore, dandole un significato, per l’appunto, epico. Ed è così che Achille, figlio di Peleo, trovò il suo posto tra le divinità, facendosi largo nella coltre di storielle e poemetti dell’epoca, trovando un ruolo nel cuore delle persone, giungendo fino a noi che, addirittura, per non farci mancare nulla, ne abbiamo fatto un film, definitivamente, proprio epico: “Troy”, 2004, Brad Pitt nel ruolo di Achille.
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Effetti speciali come se piovessero, dialoghi d’impatto, scene da cardiopalmo e tante emozioni. Gli uomini, usciti dalla proiezione, camminavano come Achille con lo scudo in mano e la spada al fianco, proteggendo la propria donna manco fosse Elena. La magia della cineamatografia attuale è proprio questa: regalare la possibilità di immedesimarsi, di vivere l’introspezione realistica dell’eroe che avremmo voluto essere ma, ahimé, non siamo e mai saremo. Questo, purtroppo, è, in modo definitivo, solo troppo POP. Il Pelìde Achille, pur essendo POP anche nel 500 a.C., aveva qualcosa di un po’ più importante: insegnava quanto l’essere invincibili rendesse vulnerabili. Impariamo gente, impariamo. Oggi trasmette solo che un gran bel fisico, con i capelli biondi e gli occhi azzurri, è più “avvincente” del contrario. Bella prospettiva ma, in concreto, concettualmente, un filino povera. La vulnerabilità dell’essere invincibile è una devastante presa di coscienza; quasi una catarsi. Attanagliante. Sarebbe facile dire: ma perché, sua madre, Teti non lo immerse completamente nelle acque, del fiume Stige, invece di lasciargli fuori solo quel maledetto tallone? Caspita ma stiamo scherzando. Così sembra una barzelletta. Invece, Omero non era un comico, lo definirei più un insegnante, come tale decise di lanciare un messaggio importante. – State attenti, siate rispettosi, non andate mai oltre le vostre possibilità, guardate avanti con devozione e abbiate cura di voi stessi. Sarete i migliori ma avrete una fine e, dopo di voi, altri verranno elevati sul piedistallo che vi era appartenuto. Oh Achille. Oh popolo di inetti e di sapienti. – Ed è così che questo errore fortemente desiderato da Omero, di immergere il piccolo Achille nello Stige fino al tallone, è stato oggetto di studio da parte molti, con scarsi risultati, ed è stato persino dipinto da Antoine Borel, nel XVIII sec., “Teti immerge Achille nelle acque del fiume Stige”.
Quel fiume demoniaco si presenta tanto quieto, le acque torbide ma tranquille e poi quattro donne, Teti, in bianco vestita, e le sue sorelle; il piccino viene immerso per la testa in quel fiume che, solo, lo avrebbe potuto rendere invincibile, immortale. Ad esclusione di quel tallone, unico elemento, volutamente, dimenticato dalla madre così da regalare, a un semi dio, l’umana possibilità di morire. Potremmo discutere anche su questo: può un uomo morire per un fendente al tallone? Non mi dilungo oltre, sarebbe patetico; d’altra parte una favola è sempre una favola e nessuno si è mai messo a discutere con l’autore, tanto meno con Omero. Va bene. Prendiamo atto. L’immagine è sacra, è il momento in cui nasce, con effettiva grazia semi-divina, il Pelìde Achille. Da qui partono i racconti di guerra e i, conseguenti, resoconti iconocrafici. Un esempio: Charles-Antoine Coypel “La furia di Achille”, 1737.
Charles-Antoine-Coypel-La Furia di Achille 1737
La potenza del semi-dio, la crociata verso la vittoria; muse, musici, guerrieri, protettori, seguaci attoniti di fronte a tale forza incessante e inarrestabile. I morti calpestati, beffeggiati; anime derise dalla potenza dell’unico che, solo, potesse avere la meglio. Coypel non sbaglia una pennellata; l’atmosfera, tendente al rosso, colora l’ambiente di fuoco, fiamme, dolore, paura e morte e, al centro, eleva un’armatura, quella di Achille con la sua spada, lo scudo e l’elmo sacro. Un vero eroe. Ma poi? Poi semplicemente Achille muore, con una freccia avvelenata, scagliata da un Paride, che fino ad allora avevamo scambiato per una comparsa. Il destino è triste e amaro e il semi-dio lascia spazio ad altri. Infondo, dai, dei sequel prima o poi ci si stufa.
Non siate mai uguali a voi stessi.
Arianna Forni

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