“Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar
Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar
Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar”
(Anonimo, canzone contro la Prima Guerra Mondiale)
Bisogna partire dall’identificazione di nazionalismo per giungere a un concetto, di fondo, che sta, ahimè, lentamente, scemando. Il Nazionalismo è, principalmente, un’ideologia dove la previsione di un amore incondizionato verso il proprio Paese natale sta alla base di tutto. Le proprie origini e la terra di appartenenza sono un must e il loro mantenimento accrescitivo diventa una mission; a discapito di qualsiasi controversia politica. Esiste, altresì, un nazionalismo economico, che si contrappone all’evidente necessità di amore eterno del popolo nei confronti del territorio, ponendo lo Stato nella condizione di autosostenersi rendendosi, esso stesso, nazionalista nella propria insita affermazione di potere. Tutto ciò che è nazionalista, in sistesi, rende un Paese libero da vincoli, strettamente politici, che riescano a limitarne l’indipendenza interna. Nazionalista è chi decide per sé e con sé eludendo infiltrazioni esterne, estranee e estere. Noi non siamo nazionalisti. Siamo “Europeisti”, casomai, ma non lo siamo nemmeno fino alla fine in quanto le continue lamentele e la voglia di fuggire rendono l’europeista un insoddisfatto insicuro tendente ad uno spirito fuggiasco. Noi siamo egocentrici. Ecco tutto. Siamo capaci di esaltare le nostre personali idee rendendole talmente forti da convincerci siano la soluzione a tutti i mali Europei, appunto. Ci siamo incoronati vincitori del trofeo del più razionalmente nazionalista allontandoci dal concetto stesso di amore per il Paese. Abbiamo distrutto la connivenza tra territorio e abitanti. Il risultato è sentirsi leader di sé stessi, padroni dell’onda su cui surfiamo quotidianamente, andiamo in giro come in “Un mercoledì da Leoni”, 1983, ventiquattr’ore sotto il braccio come fosse la nostra tavola da onda, capello al vento e sicurezza disarmante. Ridicoli.
Noi, sì, che sapremmo risolvere i problemi del mondo. Intanto siamo dietro ad una scrivania a farci dire cosa fare e come farlo, per lo più sbagliando e dovendo ricominciare da capo. Disastro. Normalità equivoca e poco altisonante. Al bar siamo i migliori, sappiamo tutto, di tutto. Tuttologi del nulla: sappiamo qualcosa di politica, poco di economia, qualcosina di organizzazione mondiale, praticamente nulla dei conflitti attuali, sappiamo, però, tutto di calcio e se fossimo stati noi il CT della Nazionale al posto di Ventura saremmo sicuramente andati ai Mondiali. Eppure riusciamo a convincere gli astanti della nostra onniscienza. Siamo degli attori nati. Dei fenomeni social e dei meravigliosi umani pensanti; qualcuno è anche “ben” pensante. Sento le unghie che stridono sulla lavagna, mi vengono i brividi.
Vi presento un’opera e vi contestualizzo il nazionalismo attraverso l’inadatta ma efficace metodologia della derisione. Per fare questo devo mostrarvi “Flag” 1954-55 e “Three flags” 1958 di Jasper Johns; l’emblema reale e realistico del senso più intimo e incondizionato di nazionalismo; di amore profondo verso la propria bandiera, vero quell’idolo che non è più solo un’icona di stile ma è molto più importante: è l’unione di un popolo che, all’unisono, grida fiero “Burn in The U.S.A” Bruce Springsteen, 1984. Ecco cos’è il nazionalismo: condivisione popolare legata ad una terra che ha sapore di origini, di nascita e di crescita e, infine, anche di arte e tecnologia.
Tre bandiere, una sopra l’altra, tre uguali sentimenti di appartenenza. Tre. Il numero perfetto; ciò che, per un americano, significa, davvero, sentimento nazional popolare. Un’opera nell’opera; un’introspezione personale che accomuna tutta un’intera nazione. Qui, adesso, vi mostrerò come, chi non ha questo forte senso di coesione strutturata nel legame al proprio Paese, può smontare e deridere questo limpido candore.
Emiliano Gironella Parra “A Jasper Johns” 2015. Dollari, dollari, altri dollari e ancora dollari. La massima derisione che si può attuare nei confronti di un popolo nazionalista è legarlo alla propria moneta. Il dolore colpisce il cuore e la mente di un popolo che ama la sua terra prima della sua economia, nonostante sia prodigo e indirizzato ad accrescere il proprio benessere, il famosissimo PIL che tanto ci atterrisce. La moneta serve a creare stabilità ma non esiste stabilità senza un popolo stabilmente solido e legato proprio alla sua stessa e univoca radice: casa sua.
Siamo talmente nazionalisti, noi italiani, noi Europeisti, da aver addirittura rinunciato a quella moneta tanto derisa da Parra, nel rispetto del dollaro statunitense, la nostra moneta, quella degli albori commerciali, quella che ha dato sospiro ai due drammatici dopo guerra. La nostra cara e bella lira non c’è più. Piangi, anche tu, lacrime amare, sì, tu che conservi mille lire nel cassetto del comodino; piangi, ricorda e dimmi: ti senti nazionalista? Gli Europeisti hanno l’EURO, alcuni ne sembrano fieri, altri ne hanno schifo, fastidio. Qualcuno ha scelto di metter la retro: la Brexit. Non siamo qui a commentare ma il nazionalismo è pur sempre nazionalismo. In definitiva poco importa di dove tu sia; ciò che conta davvero è il tuo sentimento plasmante di un potere coeso al Paese. Lavoriamo tutti con uno stesso obiettivo: crescere e farci crescere. Insieme andremmo più lontani; uniti, noi nati su questo stivale ormai senza stringhe e con la suola scollata. Mettiamoci di impegno. Noi.
A me piacerebbe essere nazionalista…
Arianna Forni