“Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
[…]
Donne e giovinetti amanti,
viva Bacco e viva Amore!
Ciascun suoni, balli e canti!
Arda di dolcezza il core!
Non fatica, non dolore!
Ciò c’ha a esser, convien sia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.”
(“Quant’è bella giovinezza…” Lorenzo il Magnifico, canti carnascialeschi, 1490 ca)
Siamo talmente incerti del nostro domani da aver dimenticato come fare ad essere “lieti” e, infatti, che dir si voglia, “chi vuol esser lieto, sia” per tutti gli altri il rimendio è l’attesa. Attesa della fine ma anche di un nuovo inizio, con nuovi stimoli e nuova energia. Attesa di un cambiamento, in positivo o in negativo, che riesca a movimentare l’esistenza con una, intima e personale, concreta capacità di guardare avanti. Per forza, indietro non si torna. In fondo basta davvero poco “Ciò c’ha a esser, convien sia.” Conviene per davvero, non ci sono dubbi, non c’è scampo e nemmeno la possibilità di ingranare la retro. Bisogna andare avanti, testa alta, petto in fuori e affrontare tutto “ciò c’ha esser”, se poi, nella consquenzialità dei fatti si riesce anche ad “esser lieti” tanto meglio. Al futuro non si scappa ed è decisamente meglio avvicinarsi all’immacabile giudizio con un sorriso smagliante, seppure possa anche essere un ghigno mesto degno di una buona scena satirica. Ridere di sé stessi significa ridere di ciò che, alla fine, non abbiamo mai concluso. Ridere per non piagere o ridere per davvero. Va bene in ogni caso. Insomma, va beh, suvvia, non siamo tetri, ridere fa bene, fa bene alla salute, fa bene a mantenere la pelle morbida ed elastica, fa bene agli occhi circondati da quelle rughette allegre che ci renderanno sempre, per sempre, una buona compagnia per “chi vuol esser lieto, sia”. La canzone sembra una canzonetta, ricorda melodie di Sanremo fuori dagli schemi neoclassici di buona musica. D’altra parte anche chi vorrebbe “avere il becco” ha trovato un modo per esser “lieto” in una triste connivenza tra una bocca che parla a vanvera e mangia male, e un becco che al massimo riesce a fischiare e beccare semini da un terreno malmesso sapendo bene quale sarà la sua fine. Con un ghigno. Non so davvero chi sia più “lieto” tra i due. Tutto questo lo deduco da “Vorrei avere il becco”, Vincitore di Sanremo 2006, Povia. “Vorrei avere il becco – Per accontentarmi delle briciole […] E mica come le persone che a causa dei particolari – Mandano per aria sogni e grandi amori – Camminerò come un piccione a piedi nudi sull’asfalto – Chi guida crede che mi mette sotto – Ma io con un salto all’ultimo momento – Volerò ma non troppo in alto – Perché il segreto è volare basso – E un piccione vola basso”. Forse non aveva nemmeno tutti i torti. Intanto cerchiamo di “esser lieti” e di “volare basso”, poi, può darsi, che riusciremo anche ad essere in grado di affrontare tematiche più altisonanti e intellettuali. Non a caso a vincere Sanremo, nel 2006 fu proprio Povia con il suo becco e, nel 2017, invece, siamo saliti di livello con “Occidentali’s Karma” di Francesco Gabbani. Nessuna polemica, lo avevo detto subito che avrebbe vinto lui, non foss’altro per la melodia molto orecchiabile in cui le parole passano in secondo piano. Lo ammetto, l’ho ascoltata molte volte ma ho continuato a chiedermi quale fosse la base, solida o meno, di questo carismatico connubio tra Occidentale e cultura buddista. Forse nei miei anni di studio mi devo essere persa qualcosa per strada. O forse no. Questo si che è “un dubbio amletico”. Nel frattempo guardo mentre “la folla grida un mantra – l’evoluzione inciampa – la scimmia nuda balla”. Continuo a chiedermi se per “esser lieti” sia necessario ballare insieme alla scimmia o sperare di avere un becco per volare bassi e accontentarsi delle briciole cadute da chissà dove. Inzio ad avere un certo fastidio nell’immagine che ho creato nella mia mente quindi passo oltre.
Nel bene o nel male viviamo in un mondo estremamente caotico in cui “per esser lieti” non è sufficiente volerlo ma è indispensabile crearsi un habitat che ce lo conceda. Adesso arriviamo ai problemi: stress, lavoro, impegni, famiglia, quieto vivere, rinunce, compromessi, aspettative, obiettivi, ricerca costante di risposte che non arrivano mai e provocano ulteriore ansia da sfogare; andiamo dal medico il quale, per 150€, taglia corto e ci dice di prenderci una vacanza perchè rischiamo l’esaurimento nervoso ma senza quei 150€ probabilmente non potremo nemmeno mettere la benzina nell’auto per partire e poi?, come?, quando?, non c’è tempo, questa vita ci ha tolto il tempo di essere noi sessi e goderci appieno i nostri reali interessi che esulano dal razionale senso del dovere e, probabilmente, ci spedirebbero su un’isola deserta, sotto le palme, a bere latte di cocco stravaccati su un’amaca costruita da un intreccio di canapa, con un pony da compagnia e un pappagallo parlante sul trespolo. Siate felici e godete di ciò che avete, tanto di isole deserte ne sono rimaste davvero poche in giro.
Guardate queste opere e poi ne riparliamo.
William Powell Frith, “La Stazione Ferroviaria” , 1862, una caotica situazione molto contemporanea.

Gente che va, gente che viene, gente in partenza. Non ha importanza dove siano diretti né il motivo, l’importante è che, in quel preciso istante, si trovino tutti insieme, ammassati, addossati, ansiosi nell’attesa del loro treno presso quella stazione. Non ci trovo niente di diverso rispetto alla classica attesa ferroviaria dei pendolari moderni. Si tratta di una immagine talmente nitida, nell’evocazione di sentimenti noti, da essere davvero reale e realistica. Ci si potrebbe domandare come fare ad “esser lieti” in mezzo a tutto quel macello, quel via vai di persone; lì si che “non c’è certezza” e l’ansia incombe prepotente: “chissà se arriverà il mio treno, chissà se sarà in orario, chissà se giungerò a destinazione sano e salvo”, chissà se sarò ancora capace di non chiedere un becco per accontentarmi delle briciole e volare basso, dopo tutto il sudore sprecato a battermi per la sopravvivenza, in quella fossa di leoni inferociti e frettolosi. Ma noi vogliamo esser lieti e allora cambiamo opera.
“For the love of God”, Damien Hirst, 2007, “Per l’amor di Dio”, inserisco la traduzione solo per aumentare il senso di inadeguatezza moderna e contemporanea dello stesso essere umano, nella consapevolezza della fugacità della sua stessa vita. Per l’amor di Dio.

Un teschio, fuso in platino con circa 8600 diamanti incastonati, tanto per arricchirne il valore e non apparire pacchiano, un ulteriore diamante rosa posto al centro della fronte dello stesso teschio; solo i denti sono reali, quasi a voler dire che “nell’esser lieti” resta ancora qualcosa di umano, di vero e vivido. I denti dovrebbero appartenere a un uomo del Settecento, non che sia di fondamentale importanza nel volere dell’opera. Per onor di cronaca, era stata messa in vendita, a Londra, presso il White Cube, per la modica cifra di 50 milioni di sterline. Tanto per dire che, sicuramente, un potenziale acquirente dovrebbe, per forza, “esser lieto”, non foss’altro per le potenzialità del suo conto corrente. Il significato intriseco di questo gioiello artistico è ben altro, è la vita che verrà dopo la morte, la vita che si illumina di quell’immensità cosmica proprio quando giunge alla sua tragica fine terrena. Diamine, dopo questo concetto artistico mai sentito prima diventa difficile “esser lieti”. Noi, però, siamo coperti da una coltre di saggezza ben più elevata, ci crogioliamo nella nostra arte, nella mistificazione del nostro io interiore e viviamo di “becchime e scimmie danzanti”.
Cosa volete che sia l’esser lieti senza un minimo di problemi per cui allietarsi una volta risolti? Siate quel che siate, vivete la vostra esistenza ma osservate la bellezza che vi circonda: l'”esser lieti” non dipende da una conditio sine qua non, dipende da un desiderio profondo di percepire sé stessi nel cosmo come diamanti ancora in vita prima che, anche il nostro teschio, si trasformi in un gioiello da 50 milioni di sterline. Adesso, sì, che avete trovato un motivo per “esser lieti”, sul serio.
Arianna Forni