“L’enigma del feticcio denaro è solo l’enigma del feticcio merce, resosi fin troppo evidente.” (Karl Marx, “Il Capitale” 1867)

Denaro, vile, meschino, sporco, corrotto, schiavizzato da una necessità superiore, governato da chi ha il potere, da chi possiede la merce, da chi, in modo evidente, mantiene vivo l’enigma del feticcio per lasciare nell’ignoranza il povero, ancora convinto che “i soldi non diano la felicità”. Può esser vero, può non esserlo, può esserci un compromesso, una sorta di equilibrio tra l’una condizione e l’altra, può esserci tutto e può non esserci niente, allo stesso tempo. Oggi sei l’uomo più ricco del mondo, domani non hai più nulla. Catastrofe. Lutto indimenticabile quanto la morte di un caro, forse peggiore, forse più intimamente frustrante. Agghiacciante nella realtà spasmodica del non poter comprare, del non potersi più rendere unici nel senso del possesso. Oggetti resi importanti da un impalpabile ed invisibile genio del marketing moderno, che viaggia su di una strada parallela, digitale, finta e inesistente come la concretezza dell’amico immaginario dei bambini. Digitale, social, proverbialmente frivolo nella conduzione di un processo con un inizio indefinito e senza una fine. Puoi proporre qualsiasi cosa, a qualsiasi cifra basta che tu sappia renderla appagante, qualcuno verrà a cercarti con la sporcizia di quei soldi in mano oppure nemmeno con quelli, verrà con la moneta virtuale, altra beffa del mondo moderno: essere ricco senza poterlo mai vedere, senza toccare con mano la propria moneta, osservando uno schermo in un lento movimento continuo che, però, di te sa tutto, proprio tutto, anche quali saranno i tuoi acquisti futuri. Pecunia non olet. Forse, ma forse “olet” eccome; il problema non sono i soldi, il problema è che l’odore nauseabondo arriva proprio da chi li può spendere senza nemmeno sapere da dove arrivino veramente. Chi genera il denaro? Qualcuno sicuramente saprà rispondere, qualcuno avrà già capito dove voglio arrivare ma qualcuno, invece no, e si chiederà quanto sia inutile questa conversazione. Il denaro è creato dal lavoro, dagli scambi commerciali, dai contratti in essere e futuri tra le aziende che producono. C’è chi produce beni primari, chi secondari e via dicendo. Chi produce genera attività sia al suo interno che all’esterno. La sua produzione prevede di essere, semplicemente e faticosamente, venduta ad altri che avranno bisogno di forza lavoro per sfruttare quella materia prima che finirà nel terziario e via dicendo. Non siamo qui a tenere una lezione di economia e nemmeno di geolocalizzazione delle imprese. Siamo qui a parlare di soldi. Per parlare di soldi bisogna parlare di Stato e per parlare di stato bisogna, per forza, parale di aziende e per parlare di aziende bisogna, in definitiva, parlare di imprenditori coraggosi, senza macchia e senza lode che, scudo addosso e elmetto in testa, si lanciano nella mischia alla ricerca del loro piccolo spazio di sopravvivenza. Imprenditori che vivono nel terrore di essere sotto la mira dei cecchini, di sedersi sulle bombe ad ananas sotto la poltrona, di vedersi entrare in ufficio uomini mascherati pronti ad eliminarli per fare spazio ai concorrenti, e poi? E poi lo Stato, le tasse insostenibili, gli stipendi da pagare ai dipendendenti che costano il doppio alla stessa azienda che ha procurato lavoro a qualcuno che, altrimenti, sarebbe a casa a piangere sangue e mangiare cipolle. Ma dai, di cosa stiamo parlando? Del PIL, del Debito Pubblico, della geniale idea di diventare parte di una grande famiglia Europea, di Trump che sta chiudendo le porte all’iportazione per favorire i suoi imprenditori, chiamalo stupido. Noi che facciamo intanto? Guardiamo le partite di pallone, ci sollazziamo con Pomeriggio5 e le faccette di Barbara D’Urso e poi ascoltiamo pietrificati il crudo verismo narrativo di Bruno Vespa; giù lacrime, sudore e schiene spezzate dall’abominio infernale di un Demonio che abbiamo creato da soli, o meglio, hanno creato per renderci la vita un pochino più pesante. Eppure già nel ‘500 il denaro, tutto sommato, puzzava. Osserviamo, ad esempio Marinus van Reymerswale, “Gli esattori”, XVI secolo 1540 ca; quello sguardo di schifo non lascia molto all’immaginazione, avevano fastidio del loro stesso lavoro, avevano ribrezzo nell’abbandonare povera gente senza nemmeno i soldi per comprare la farina, il grano, mentre loro se ne stavano al caldo, nel loro ufficio ben arredato e con i loro abiti costosi e dalla foggia modaiola. Ogni riferimento al presente contemporaneo è puramente casuale. Ma non sono i soli.

Quentin Massys, “Il cambiavalute e la moglie”, 1514.

Quentin Massys, “Il cambiavalute e la moglie”, 1514

La tristezza nello sguardo di entrambi, concentrati per non sbagliare, presi dal loro lavoro deplorevole. Maneggiare denaro, denaro, tanto denaro e poi non avere nemmeno una, di quelle monetine, per sé e per la propria gestione familiare. Che vergogna, che fastidio, che tristezza umiliante. Quel tavolo sommerso dalle tintinnanti monete di ferro e quell’uomo minuzioso nella valutazione del valore reale, con la consapevolezza che qualcuno andrà via con molti soldi e qualcun altro dovrà accontentarsi di un cambio al ribasso. Anche noi ne sappiamo qualcosa. Intanto si ripensa al baratto e a quanto sarebbe meglio non conoscere il significato di signoraggio e di inflazione.

Marinus van Reymersvaele, “Gli usurai”, 1540.

(Marinus van Reymersvaele, Gli usurai, 1540)

Beh qui i commenti sono quasi inutili, lo sguardo di quell’uomo sulla vostra destra può essere solo quello di un usuraio; sulla sinistra il “revisore dei conti”, il saggio del duo, la Volpe insieme al Gatto che scrive, scrive, scrive tutto di tutti quelli che hanno spremuto fino alle viscere e intanto conta quei soldi che puzzano davvero, puzzano di marcio, puzzano di rapina, puzzano e basta. Era il 1540 figuriamoci quanto puzzerebbero adesso, gli stessi soldi sottratti oggi, ieri o domani. Una riflessione pesante. Un gioco d’azzardo reale, un giogo infernale che altro non può fare se non distruggere delle anime. Aiuto, gridano. Tutto tace.

Infine osserviamo “Il pagamento del tributo”, Masaccio, 1425.

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Gli Apostoli erano giovani, talmente giovani da non rietrare nel pagamento del tributo mentre per Pietro e Gesù la questione era differente, a quel tempo, come al giorno d’oggi, poco importava se chi era annoverato nell’elenco dei tributari non aveva denaro. Dovevano pagare. Pietro preoccupato chiese a Gesù cosa fare, fu un pesce a salvarli, il pesce che lo stesso Gesù fece pescare a Pietro, aveva una moneta d’argento al suo interno ed era sufficiente a pagare quanto avrebbero dovuto sia per l’uno che per l’altro. Una parabola, una storia, un racconto lontano nel tempo ma troppo moderno da far quasi paura. Non a caso la scena del pagamaento è costretta nell’angolo di destra del quadro, mentre al centro troviamo Gesù circondato dai suoi Apostoli in fermento e preoccupazione. Gesù sembra volerli tranquillizzare mentre tiene d’occhio Pietro nella speranza che tutto si svolga per il meglio. Un sospiro di sollievo e si può tornare a vivere, almeno fino al prossimo tributo. Beati loro che avevano i pesci con le monete d’argento in bocca, per i nostri imprenditori e i nostri poveri le cose si mettono male davvero. Allora arriva l’emblema della genialità moderna.

Avevo detto che The Greatest Coat non avrebbe mai affrontato tematiche drammatiche o polemiche ma i comici barzellettieri non rientrano in queste categorie: “Una società evoluta è quella che permette agli individui di svilupparsi in modo libero, generando al tempo stesso il proprio sviluppo. Per fare ciò si deve garantire a tutti lo stesso livello di partenza: un reddito, per diritto di nascita”, Beppe Grillo, ma non credo servisse nemmeno citare la fonte.

Facciamo una bella cosa, tutti insieme mi raccomando. Domani usciamo di casa alla solita ora, entriamo al nostro lavoro e incrociamo le braccia, alla stregua dello sciopero femminista, aspettiamo l’imprenditore capo del nostro settore, colui che con fatica ci ha garantito uno stipendio fisso e chiediamogli di chiudere baracca e burattini e andare a casa a godersi la vita. Abbiamo trovato la soluzione a tutti i mali. Una capra, ringrazio Sgarbi per avermi permesso di trovare la parola giusta, con la chiave di volta alla crisi moderna: “Un reddito, per diritto di nascita”. Forse cercare di eliminare lo smog non è così positivo: l’ossigeno dà alla testa.

Come per le monete, le facce della stessa medaglia sono sempre due ma vanno guardate, entrambe, con consapevolezza.

Arianna Forni

 

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