“Adesso posso dire che l’arte è una sciocchezza”
(Arthur Rimbaud)
Affermazione in grado di azzerare la mente, di resettare qualsiasi sentimentalismo pittorico e di distruggere la magia poetica dell’artista visivo. Una sciocchezza dite? Una sciocchezza per chi sa realizzarla, per chi ha una mente che riesce a vedere più in là, oltre l’orizzonte, oltre il tangibile, oltre l’immaginario comune. Arte non è mettere qualcosa su una tela, tranne in alcuni casi che hanno reso l’artista in questione ricco ed, inaspettatamente, famoso, è mettere su una tela qualcosa che nessun altro avrebbe messo. Arte non è nemmeno dare un reale significato alla propria opera, a quello ci pensano i critici, è trasmettere una sensazione. I critici, poi, per tornare sul significato dell’opera stessa, mettono concetti e parole nella testa e nella bocca dell’autore che, ammesso non abbia rilasciato qualche dichiarazione post produzione, non possono avere la minima credibilità. Sono parole, solo parole, con le quali il critico acquisisce, attraverso una buona parlantina da “public speaker”, quel suo momento di gloria effimera ma altrettando entusiasmante. Certo è che, qualora sia bravo davvero, avrà una carriera in ascesa come ipnotizzatore delle folle, coinvolgendo un pubblico, contemporaneo, con le tasche piene di denaro sonante, da spendere al più presto per appendersi in casa un pezzo da far morire d’invidia qualsiasi ospite. Ok, se siete venuti alla mostra per comprare andate dai critici e troverete, sicuramente, quello che state cercando; lo stesso vale per i curatori della mostra, sono un po’ come gli allestitori delle vetrine più chic, le grandi firme hanno bisogno di avere un’esposizione degna del loro stesso nome, chi allestisce, e occupa gli spazi, sa bene dove vuole andare a parare, sa bene cosa sarà più importante far guardare agli ospiti della serata; sa cosa far comprare. Per non parlare dei vernissage. Oddio solo la parola mi raddrizza la schiena e mi fa assumere un’aria da intellettuale tra le più snob che abbiate mai visto. Il vernissage è per pochi eletti: per i giornalisti, che ci vanno per lavoro, per lo staff tecnico artistico, che, appunto, ci va per lavoro, per l’artista, o gli artisti coinvolti nella mostra, che ci sono per lavoro, ma poi, le porte si aprono ai VIP, quei personaggi che, senza sapere come e perché, hanno ricevuto l’invito e, no, non possono mancare per niente al mondo. Vernissage, l’apertura ufficiale di una mostra, permette di far entrare alcuni rari eletti. Il termine deriva dall’ultima pennellata che gli artisti davano, e danno, ai loro quadri, per renderli lucidi, prima di aprire le porte all’esposizione vera e propria. In epoca passata invitavano gli amici ad assistere proprio a quell’ultima luccicante verniciatura che avrebbe mostrato le loro opere nella massima espressione di bellezza e perfezione. In italiano, il termine, viene tradotto proprio con vernice, da cui “vernice di una mostra”: apertura.

Torniamo all’aplomb richiesto: schiena dritta, tacco alto per le donne e doppio petto per gli uomini, aria da intellettuale che potrebbe, ma non vuole per non mettere nessuno in imbarazzo, saperne più dei critici, dei giornalisti e degli artisti messi insieme. Arriva con il suo incedere sicuro ma mai frettoloso, si guarda attorno e saluta tutti come fossero amiconi d’infanzia, sfoggiando un sorriso a trendadue denti, bianchissimi, da pubblicità del dentifricio più cool della stagione. Si fermano a prendere un bicchierino di Champagne, poi un altro e qualche stuzzichino, tanto per gradire. Si annoiano a morte ma loro ci sono. Fanno selfie con tutti giurando che mai verranno pubblicate sui social, non ci credono nemmeno loro mentre lo dicono. Però c’è un vantaggio ad averli invitati: hanno tutta l’esposizione davanti agli occhi e andarsene a mani vuote suonerebbe male. A nessuno piace fare la figura dell’imbucato. Voilà les jeux sont fait! Ora si inizia la vera mostra; le spese sono già state coperte. E via di marketing spicciolo.
Questo per introdurvi ad un’arte contemporanea molto diversa da quella presentata nei giorni scorsi. Esistono varie sfaccetature dell’arte da restare scioccati e stupefatti. Se ne vedono di stranezze in giro; questo, a parer mio, ha qualcosa che va un po’ oltre. Si tratta, davvero, di un artista dei nostri giorni: Gerhard Richter. Nato a Dresda nel 1932, non era, inizialmente, un grande studioso, a sedici anni lascia la scuola per dedicarsi a ciò che sente dentro di sé fin da bambino: l’arte, fare arte, produrre arte, di qualsiasi genere. Inizia a lavorare nella pubblicità e a dipingere le scenografie dei teatri poi, però, si accorge di non essere pronto per diventare un vero artista. Cappello in mano, presa di coscienza, testa bassa e torna a studiare, per essere più precisi si iscrive all’Accademia d’Arte di Dresda, per poi trasferirsi a quella di Düsseldorf e, infine a Colonia, dove sceglierà di fermarsi. Lo studio sarà il vero e proprio inizio del suo essere artista; partendo da una base solida è tutto più semplice. La sua bravura è innegabile, le porte si sono aperte senza troppa fatica. Fin dall’inizio viene accerchiato da un mondo di critici che iniziano a parlare di lui. Senza correre mai troppo inizia ad esporre per le gallerie più importanti fino ad arrivare al Museo d’Arte Moderna di New York con la sua esposizione Gerhard Richter: 40 Years of Painting, curata da Robert Storr, aperta nel febbraio 2002.

Ci sono voluti anni di fatica e impegno totale, dedizione e soprattuto fiducia in sé stesso. Ce l’ha fatta e ha creato qualcosa di molto interessate, differente dal comune metodo di pittura, diverso dal fare un’arte autoreferenziale. Ha creato un filone rivolto ad un pubblico che abbia il desiderio prendersi del tempo per raginare e assimilare ciò che sta guardando. Da questo concetto voglio mostrarvi una serie di Abstract Paintings lontani dal vero surrealismo ed estremamente vicini alla nostra forte e vivace contemporaneità:
Qui rimaniamo ancora sul suo stile da futurista dei giorni nostri, con questo effetto specchio che sembra volerci mostrare un’anima interiore sconosciuta e confusa. L’effetto determina un impatto frontale a cui è impossibile sottrarsi. La vera svolta si ha con la serie di dipinti su fotografia con i quali ha saputo, veramente, superare sé stesso:

La pittura sopra l’immagine fotografica diventa un elemento complementare, non è più aver sporcato una foto è un aver integrato il colore astratto alla verità del realismo puro. Ci pone davanti alla difficoltà di voler guardare oltre il colore ma anche non volerlo fare, ci fa osservare due facce della stessa medaglia: il reale e l’astratto, la verità e la finzione.

Bastano due schizzi di colore per confonderci le idee e far apparire suggestivo il muro di un palazzo privo di forma e formalità artistica. Ha trasformato una veduta cittadina, assolutamente, normale in un’opera d’arte.

Chissà cosa avrà deciso di coprire, chissà perché e chissà se ha davvero coperto qualcosa o meno. Non importa, ciò che conta sono le domande che ci poniamo osservando le sue opere, è l’introspezione che, ognuno di noi, riesce a provare attraverso lo statico dinamismo di una foto pitturata.
Versissage o meno ciò che conta è cosa viene esposto e come. Non è fondamentale che l’artista parli, ci sono milioni di persone che parleranno a vanvera per mesi dopo essere stati a una mostra e saranno proprio quelle parole, positive ma anche negative, a fare dell’artista un’icona o un flop. Richter è un’icona perché ha saputo rinnovare il senso estetico dell’arte attraverso la fusione di due stili diversi eppure tanto simili.
“Gli opposti si attraggono, si cercano, si completano, si amano perché si donano reciprocamente quello che individualmente non hanno e rappresentano anche un’attrattiva di reciproca curiosità.”
(Beniamino Joppolo)
L’idea fa la differenza, la realizzazione è solo il materialismo con cui un artista sceglie di mostrare al mondo quello che solo la sua mente ha saputo creare. Il concetto è semplice e vale per tutto, purtroppo, o per fortuna, i vincenti hanno le idee, per tutti gli altri non resta che copiare.
Arianna Forni
