“Sempre insieme, eternamente divisi. Finché il sole sorgerà e tramonterà. Finché ci saranno il giorno e la notte.”
(personaggio: Phillipe Gaston, interpreato da Matthew Broderick, “Ladyhawke” 1985; Michelle Pfeiffer interpreta Isabeau D’Anjou)
Sempre insieme, eternamente divisi. La storia di un amore vero e reale come il giorno e la notte, come il susseguirsi delle giornate. Insieme, con amore eterno e divisi da quello stesso amore. Era il 1985 e, per chi c’era, per chi lo ha visto centinaia di volte, non restava che piangere e soffrire ogni volta che il Lupo riusciva a sfiorare il Falco.

Uno stillicidio; un resoconto fantasy di quello che vediamo ogni giorno. Famiglie che si salutano al mattino presto, escono per andare a lavorare e tornano tardi la sera: c’è tempo solo per un bacio, quella della buona notte e quello del buon giorno. Era un film molto metaforico, lasciava tutti, ragazzini e adulti, con l’amaro in bocca e la speranza che, finalmente, il tempo si fermasse per lasciare, ai due amanti, il tempo di godersi i loro splendidi occhi, solo per qualche secondo in più. L’incantesimo e la prigionia esposti alla stregua della contemporaneità verso la quale, già allora, ci stavamo spingendo.
“Gli anni d’oro del grande Real
Gli anni di Happy Days e di Ralph Malph
Gli anni delle immense compagnie
Gli anni in motorino, sempre in due
Gli anni di “Che belli erano i film”
Gli anni dei Roy Rogers come jeans
Gli anni di “Qualsiasi cosa fai”
Gli anni del “Tranquillo, siam qui noi, siamo qui noi”
(883 “Gli anni”, 1995)
Quelle immense compagnie delle estati al mare in cui ci si divertiva come matti con niente; bastava un pallone, una corda o due racchettoni e la giornata da grigia diventava perfetta. Gli scherzi erano sempre quelli: chi prendeva il sole, assopito, veniva gettato in acqua alla sprovvista, chi aveva sete finiva sempre per trovarsi una bottiglietta piena di acqua salata anzichè naturale, i cellulari sparivano sotto la sabbia, tanto la old school dei telefonini avrebbe resistito anche nel bel mezzo di un uragano. Bastava un niente per scatenare la risata contagiosa, il gruppo era in delirio; quando il sole iniziava a tramontare non sembrava vero, bisognava tornare a casa perché le famiglie di allora pretendevano la presenza a cena con un orario prestabilito da rispettare, lo sgarro veniva punito con un sonoro “domani stai in casa, altro che spiaggia”. Testa bassa e rispetto, prima di tutto, poi venivano gli amici e il divertimento goliardico. Si girava in CIAO, prodotto dalla Piaggio, hanno fatto una fortuna, era talmente brutto da essere meraviglioso. Significava libertà.

Quel motorino assomigliava più a una bicicletta che ad un mezzo a motore, non era importante, la sola cosa che contava era che l’accensione fosse rapida e si riuscisse a montare in due, non tanto per fare i teppisti ma perché eravamo in tanti e i mezzi di trasporto erano troppo pochi per permetterci il lusso di averne uno per ciascuno. Andava bene così, era divertente anche quando si rientrava con le ginocchia a brandelli per le curve troppo strette e le raschiate contro i muretti. Quanto era bello.
Quanto erano belli i film e quante volte venivano visti e rivisti fino a conoscerne le battute a memoria. Si cercava di entrare nel personaggio quasi fossimo noi gli attori, volevamo sentire i loro sentimenti, vivere le loro emozioni e imparare a sopravvivere tirando fuori quella forza che, certamente, avevamo anche noi, da qualche parte, forse.
Così per “Full Metal Jacket”, 1987:
Sergente Hartman: Se voi signorine finirete questo corso… e se sopravviverete all’addestramento… sarete un’arma! Sarete dispensatori di morte e pregherete per combattere! Ma fino a quel giorno… siete uno sputo! La più bassa forma di vita che ci sia nel globo! Non siete neanche fottuti esseri umani, sarete solo pezzi informi di materia organica anfibia comunemente detta “merda”! Dato che sono un duro non mi aspetto di piacervi, ma più mi odierete più imparerete! Io sono un duro però sono giusto! Qui non si fanno distinzioni razziali, qui si rispetta gentaglia come negri, ebrei, italiani o messicani! Qui vige l’eguaglianza: non conta un cazzo nessuno! I miei ordini sono di scremare tutti quelli che non hanno le palle necessarie per servire nel mio beneamato corpo! Capito bene, luridissimi vermi?!

L’introduzione del tema del razzismo aveva lasciato tutti spiazzati; da una parte il popolo di sinistra e dall’altro quello di destra ma questo non era fondamentale, quello che contava era la durezza del film stesso: sconcertante e talmente crudo da dover essere visto a tutti i costi per mostrarsi forti in tutto e per tutto. Eravamo dei duri ma poi non sapevamo più addormentarci per paura che potesse arrivare la guerra, quella vera.
Nel 1992 esce “Le Iene”, altro cult storico visto e rivisto miliardi di volte, Le Iene di oggi possono solo sciommiottare gli abiti di allora, perché del resto non è rimasto nulla. Nel 1993 arriva “Jurassic Park”, un’apoteosi di effetti speciali, pareva quasi di essere nel futuro, nessuno si è perso l’uscita cinematografica di questo colossal dalla storia strana, avvicincente per gli adulti e, per i bambini, del tutto terrificante. Erano gli anni di Toy Story, di Pulp Fiction, di Forrest Gump, di Titanic, di Matrix. Già “Matrix”, cosa avresti scelto tu, tra quella pillola blu e quella rossa? Ignoranza o Conoscenza? Vivere bene nella finzione o conoscere la cruda realtà? La domanda non ha mai avuto risposta, la sola cosa che eravamo certi di sapere era quanto fosse entusiasmante vedere quelle mosse al rallenty di Neo e del suo impermeabile nero. Negli anni ’90 avremmo detto tutti: “che figata”, senza riferimenti di altro genere, se non alla condensazione di emozioni scaturite da una sola pellicola.

E poi? Beh erano
Gli anni di “Qualsiasi cosa fai”
Gli anni del “Tranquillo, siam qui noi, siamo qui noi”
Già perché, in effetti, c’eravamo veramente, eravamo presenti fisicamente e mentalmente, eravamo pronti a tutto pur di aiutare un amico, pronti a sacrificarci per la compagnia, pronti a dare tutto quello che avevamo per divertirci un’ora in più al bialirdino, in sala giochi, alla sera, quando il rientro massimo era fissato per mezzanotte. Eravamo Cenerentola ed eravamo felici di esserlo. Ci bastavano quattro monetine per un gelato e aprire la porticina delle palline del calcetto; ci bastava una passeggiata fino al faro del porto, eravamo contenti di esserci scambiati uno sguardo con il ragazzo o la ragazza che ci piaceva. Avevamo già toccato il cielo con un dito. Non serviva altro. Eravamo li, presenti, con i nostri cellulari inutili in tasca, nessuno li usava ma era d’obbligo averli perché i genitori dovevano poterci rintracciare in qualsiasi momento e guai a non rispondere. Eravamo vivi, vicini, pelle contro pelle, ci si guardava in faccia, si litigava, ci si prendeva in giro e poi? E poi “facciamo la pace va che è estate e bisogna divertirsi e basta”. Non sapevamo cosa fosse il digitale, non sapevamo esattamente cosa fosse internet, non sapevamo niente di niente ma eravamo felici. Oggi? I ragazzini nascono con lo smartphone in mano e i videogame ultima generazione installati in camera da letto; chattano su facebook e si scambiano foto e news tra followers come se fosse una cosa normale. Non vedono il pericolo e, ancora più grave, non riescono a vedere l’abominio asettico e apatico presente all’interno dei loro cuori. Che tristezza.
Credo abbiam perso la testa
O soltanto perso di vista
Le cose più vere
Nel mare in tempesta
E forse non basta
Ma confesso di avere paura
E non mi era ancora successo
Paura del mondo […]
Se questo mondo non è mai
Come lo volevi tu
Se ti vien voglia di gridare
Non fermarti più
È il battito animale
(RAF “Il Battito Animale”, 1993)
Arianna Forni
