“I’m coming home
I’m coming home
Tell the World I’m coming home
Let the rain wash away all the pain of yesterday”
(Dirty Money Feat.: Skylar Grey, “Coming Home”, 2010)
Persi, abbandonati, gettati in mezzo ad una strada, in una città sconosciuta, diversa da quello che ci saremmo aspettati, da quello che ci era stato insegnato. Persi, dispersi e soli, in quel mondo, fino a ieri, conosciuto e sicuro. Persi, angosciati dall’enfasi di raggiungere qualcosa che non sappiamo più trovare. Oggi c’è, domani non è dato a sapere. Persi, disperati e confusi, abbiamo bisogno di aiuto, di una mano da parte di qualcuno di cui possiamo fidarci; dobbiamo fidarci, dobbiamo avere la sicurezza di tornare a casa. In un luogo sicuro, protetto dal male, dall’inconsapevolezza, dalle novità e da quegli incessanti imprevisti che nessuno ci aveva mai spiegato. La casa è quell’unico luogo al mondo in cui possiamo essere noi stessi, in cui abbiamo vicine un sacco di cose note, certe, sicure, in cui abitano persone con le quali condividere gioie e dolori, sofferenze e successi; sono lì, adesso, e ci saranno anche domani, dopodomani, sempre. Torna a casa. Sei ancora in tempo. Torna e fatti spiegare cosa stia succedendo là fuori, fatti raccontare, apprezza quegli insegnamenti ai quali non hai mai dato peso perché troppo protetto da quel tetto sotto il quale sei sempre tornato. Torna e chiedi cosa fare per vincere, per non sentirti più perso in quel rovo di spine che si trova fuori dalla porta, aumenta ogni giorno e ogni giorno diventa più difficile rientrare. Persi. Dispersi. Angosciati. A scuola eravamo i classici bulletti, i secchioni con gli occhiali evitati da tutti, i belloni ammirati che incutevano timore e rispetto, gli incapaci che non riuscivano ad imparare nulla; eravamo tutti diversi ma, al contempo, tutti uguali. Stavamo condividendo un mondo simile per tutti, sicuro, stabile, determinato e con un percorso ben definito. Sembrava eterna, la scuola, sembrava non sarebbe mai finita, che avremmo trascorso l’eternità su quei banchi e poi? Poi ci si ritrova in un attimo all’università e catapultati nel mondo del lavoro. Il lavoro, già, quel contesto triturante, avvilente, mistificato fino all’attimo prima di metterci piede. E allora, dopo tanti sforzi, tanto impegno e tanto desiderio di cambiare il mondo, ci si accorge di quanto sia difficile la semplicità di ritrovare la strada di casa, in quel dedalo infernale di lotte di classe, sfide continue, colleghi infuriati, aziende infuocate, capi dall’aria mitologica, quasi sempre irraggiungibili se non in rari casi, compaiono alle cena di Natale, per gli auguri ai dipendenti, compaiono per schernire gli sciocchi e ammonire gli stolti ma, mai, sono raggiungibili per una richiesta, un aiuto, un consiglio. E tu sei perso. Perso nell’azienda in cui lavori, perso in metropolitana, perso nel bar in cui, ogni giorno, pranzi con quei due o tre colleghi con cui ti trovi più in sintonia, perso quando timbri il cartellino di uscita, quando dovresti sentirti, finalmente, libero ma iniziano altre incombenze a cui non vuoi e, spesso, non puoi far fronte. Perso. Torna a casa: finché sei in tempo. Caspita nessuno ci aveva spiegato tutto questo, nessuno ci aveva mostrato il mondo per quello che è. Noi, bambini ignari, osservavamo il papà con ammirazione quando, alla sera, rientrava sorridente e si metteva a giocare con noi sul pavimento di quella casa tanto sicura. Noi, ignari, ignoranti e fessi, gettati davanti alla crudezza del male moderno senza una sola arma con cui difenderci. Le armi, semmai, dipendono dall’esperienza ma per farsi un’esperienza bisogna reggere lo stress e andare fuori ogni giorno, uscire allo scoperto, guardare, a testa alta, ciò che ci circonda e studiare una mossa adeguata, prefigurare una difesa ad un possibile attacco. Noi, indecisi, imprecisi, insicuri e capaci di commettere più errori di quanti si possa immaginare sia possibile metterne insieme. Noi, incerti, scostanti, pronti a prendere strade diverse per evitare quel groviglio infernale di difficoltà che vediamo là, sul fondo della via, sul limitare della vita, ci fa troppa paura e allora svoltiamo; indietro non si può tornare. Bisogna provare. Siamo uomini.
“Io sono un’uomo – Non so se hai presente un’uomo – Quello creato il sesto giorno prima delle ferie – Quello che in molti vorrebbero fatto in serie – Quello che ormai si sa quasi tutto – Genetica mente simile al maiale – Quello agli altri uomini diverso ma uguale – Quello che si riunisce con i parenti a Natale – Quello educato, inscatolato – Da mille telecamere 24 ore al giorno controllato – Quello con il suo angolo segreto – Dove sfogare le sue frustrazioni – […] La mia vita un mistero – Scusi sa dov’ il bagno? – Mi sono perso – Scusi sa che ore sono – Da che parte il centro? – C’è qualcuno che mi prende sul serio? – Io sono un’ uomo non so se hai presente – E non tutto sai? – Puoi trovarmi nel centro di Milano – Dentro una caverna o sopra un aeroplano – Ansiogeno misogino dentro a un lacrimogeno – Oppure intento a scindere l’atomo di idrogeno – In una fila di macchine davanti a una puttana – O a casa di mia suocera nel fine settimana – A sfogliare riviste di moda tra attrazione e rabbia – A spalmarmi creme a fare castelli di sabbia – In ginocchio di fronte a un amore finito – Al sicuro nascosto dietro al mio dito – Bello come il sole in una mattina di primavera – Rimesso in discussione già quando arriva la sera […]”
(Jovanotti, “Un uomo”, 2002)
Il buio scende pesante sulle nostre case, quelle dove, se Dio vuole, siamo riusciti a rientrare con qualche acciacco ma ancora vivi, affamati. Affamati di affetto, di partecipazione, affamati di cibo per rigenerare lo stomaco e rinsavire la mente. Affamati e stanchi, vorremmo partecipare attivamente alla costruizione del nostro domani, consigliati e rassicurati dai nostri commensali ma siamo davvero stanchi, troppo stanchi, troppo nervosi, troppo stressati per guardare dinanzi a noi propositivi e determinati. Andiamo a letto, ci chiudiamo in quell’ “angolo segreto a sfogare le nostre frustrazioni” finché il sonno non avrà il sopravvento.
Della stagione morta
Per cui rimpianti adesso non ho più
E come tanto tempo fa
Ripeto “chi lo sa?
Domani è un altro giorno, si vedrà”

Anche Giulietta e Romeo avevano un luogo, segreto, in cui incontrarsi e vivere il loro amore. Una casa. La casa Capuleti, la troppale infernale che, però, assumeva una connotazione sicura quando i due amanti condividevano momenti unici e, ahimé, irripetibili. Ed ecco Francesco Hayez “L’ultimo bacio di Romeo e Giulietta” 1823.

Non stento a credere che anche Antoni Gaudì avesse una bella casa dove rientrare ogni sera, dove stendersi a riposare, dove riflettere e pensare alla sua prossima creazione. Anche Gaudì è un uomo, lo stesso uomo descritto da Jovanotti ma era un uomo con una vivacità interiore talmente viva da restare eterna:

Questo per dimostrare quanto la Casa sia, e sia sempre stata, un luogo importante, un luogo mistico e mistificato, un posto di pace, di serenità. La Chiesa è la Casa del Signore che accoglie i suoi fedeli. La Casa è il luogo dove si trova la famiglia. La Casa è il nido dell’uomo, in cui può liberarsi della maschera indossata di giorno, nella guerra quotidiana per la sopravvivenza.
“O signore dell’universo
Ascolta questo figlio disperso
Che ha perso il filo e non sa dov’è
E che non sa neanche più parlare con te
Ho un cristo che pende sopra il mio cuscino
E un buddha sereno sopra il comodino
Conosco a memoria il cantico delle creature […]
Saturno coi suoi anelli e poi le stelle nuove
E quelle anziane piene di memoria
Gloria a tutta l’energia che see’è nell’aria
Questa è la mia casa la casa dov’e’
La casa dove posso portar pace
Io voglio andare a casa la casa dov’e’
Questa è la mia casa la casa dov’e’
La casa dove posso stare in pace con te”
