dal MiArt 2018, Fiera Internazionale d’Arte Moderna e Contemporanea

Entro, lo spazio è angusto, il numero di persone all’interno degli stand non ha un limite e non può nemmeno essere reale. Mi fermo, ho caldo, slaccio la giacca e inizio a guardarmi attorno. Devo trovare una mappa e orientarmi per evitare di perdermi nel dedalo infernale. Andiamo con ordine, seguo il flusso dei visitatori e intanto ascolto i loro discorsi e scopro di essere immersa in un nugolo di critici d’arte di fama internazionale, come la Fiera stessa, alla ricerca di quel pezzo unico, dal gusto attuale ma classicheggiante, tecnologico ma con quel tocco di rimembranza antica, luminoso e colorato ma sufficientemente tetro da creare un’atmosfera noir nel salotto di casa. Gli ospiti dovranno ammutolirsi, assumere un’aria nutrita di consapevolezza, osservando il nuovo acquisto di un esperto collezionista. Sento i brividi lungo la schiena ma mantengo aplomb ed eleganza; la strategia migliore, in certe situazioni, è amalgamarsi alla folla per non destare sospetti. Mi sembra di indossare una corona di spine o avere la testa ingabbiata in quella catena, “Chain of fools”, Aretha Franklin, 1968:

“For five long years
I thought you were my man
But I found out, I’m just a link in your chain
Oh, you got me where you want me
I ain’t nothin’ but your fool
Ya treated me mean
Oh you treated me cruel
Chain, chain, chain
Chain, chain, chain
Chain of fools”
Vengo sommersa dai colori, da strani contesti scenografici, architettonici e ambientali; fittizi arredamenti di interni, trasformati in arte da un assemblamento di pezzi poco coerenti tra loro. Mi fermo, mi sento pazza, una pazza in mezzo a uno stuolo di “Dotti, Medici e Sapienti”, sento una domanda, sono stata scoperta, tirata in causa, devo inventarmi qualcosa e allora rispondo, quello che penso:

“Sono a tutti molto grato
di esser stato consultato
per me il caso è lampante
costui è solo un commediante!

No, non è per contraddire
il collega professore
ma costui è un disadattato
che sia subito internato!”

(Edoardo Bennato, “Dotti, Medici e Sapienti”, 1977)

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diritti riservati – pic by AF

Mi guardano straniti e se ne vanno, proseguo il mio cammino e osservo, mi fermo, cerco di capire. L’arte va compresa. Succede spesso che, di primo acchito, si possa rimanere scossi, scioccati oppure increduli, poco attratti. Guardo meglio ma la massa di gente, vestita a festa, che ho di fronte, non mi lascia molto spazio di interazione con le opere. Scatto qualche foto, vedrò di soffermarmi su qualcosa di meno ambito.

Ho trovato davvero di tutto, ritagli di giornale, quadri tutti rosa, tutti beige, tutti neri; sedie dal design improponibile e lampade ipnotizzanti. Ho visto scene da film e ho ripensato al libro di Donald Thompson “Lo squalo da 12 milioni di dollari”: aveva ragione lui, le gallerie e le mostre sono passerelle per pseudo professoroni, location di discussione da bar, situazioni dove farsi riconoscere, dove lanciare qualche frecciatina al gallerista dello stand affianco, risucchiando i clienti, cercando di manipolarne l’interesse per ricevere in cambio larghi sorrisi e promesse di acquisti milionari. Ognuno ha il suo scopo ma, qui dentro, per pochi è l’arte, per gli altri è il business.

 

Per niente soddisfatta, nonostante lo specchio fosse più di un semplice incentivo, proseguo e mi immergo nel pensatoio azzurro, in contemplazione di una modernità post-contemporanea, laddove il post sta proprio per dopo, dopo, dopo, ovvero “lo faccio dopo…lo dico dopo…lo studio dopo…ci penso dopo…”. Devo uscire dalla mia bolla perché qualche critico incallito deve copiarmi la fotografia, anzi, sono io ad aver copiato la sua idea prima che la mettesse in pratica. Mi sento osservata. Un Grande Fratello dell’arte. Ora capisco perché tutti i grandi artisti contemporanei abbiano scelto di non esporre qui, in mezzo al caos caotico e rumoroso di chi di arte ne sa ben poco. I’m scared, I’m frightened, I’m tired. Lasciatemi riflettere un secondo, trovo un altro specchio, sembra che gli specchi vadano per la maggiore quest’anno, oppure, semplicemente, sono quel “classico che non muore mai”.

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diritti riservati – pic by CP

Ci vuole un po’ prima che riesca a trovare qualcosa su cui valga, davvero, la pena soffermarsi ma, prima di arrivarci, mi sento costretta a fermarmi ancora. Ho visto l’emblema, l’icona, lo stemma, l’idolo di questa Fiera. Fuoriesce il Dante che c’è in me e le vedo, lì, in mezzo alla folla, imbestialite e sanguinarie: le fiere. Io sono immune dalle loro zanne assetate di morte. Nei miei jeans grigi e nel mio capello biondo spettinato ma con classe, non rientro in quella consuetudine leziosa di riverenze e sorrisini, sono loro ad essere l’ambita preda. Le fiere, con me, saranno magnanime:

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diritti riservati – pic by CP

Attraversato il guado infernale, grazie a un Caronte tetro, urlante, stufo e indispettito da tutte quelle mielose consuetudini di quel mondo dell’arte, ormai ben inserito in un mix quite fashion. Scendo dal traghetto e vedo un settore praticamente vuoto; mi domando cosa possa esserci di tanto terribile rispetto a quanto visto fino adesso e poi capisco, comprendo, mi si schiude la mente, fluiscono i ricordi, il sangue torna a scorrere e l’arte torna a vivere. Giorgio de Chirico: una calamita per i colti, pochi, e uno scaccia zanzare per i critici spicci dell’arte da portineria che faccia gossip nel proprio stabile prima ancora di essere appesa al muro, del proprio salotto, con il cartellino del prezzo bene in vista. Ridicolo ma divertente allo stesso tempo. Io intanto mi fermo dal buon De Chirico e ci faccio due parole, serie e profonde: “Ma come hanno potuto portarti qui in mezzo?”

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Giorgio De Chirico – diritti riservati – pic by AF

Il primo quadro sembra rispondermi davvero, quel cavallo bianco, lo sguardo rivolto verso un luogo sicuro, protetto dai predatori; il baio sembra rassegnato, immobile aspetta, prega per un futuro migliore; appeso alla parete di chi saprebbe averne il giusto rispetto. Questo, però, è un De Chirico fuori dalla cosuetudine, è un De Chirico più naturalistico, verista; dipinto intorno al 1935 insieme ad una serie di cavalli in riva al mare, talmente reali da lasciare tutti a bocca aperta. Tutti tranne il nugolo di damerini parlanti che calcano il pavimento del MiArt 2018. Guardo De Chirico, gli do un’affettuosa pacca sulla spalla e mi sposto verso altri due tra i suoi quadri più affascinanti.

Questi sono due De Chirico più tardi, rispetto all’epoca dei cavalli, ci troviamo, pressapoco, nel 1950. Queste figure potrebbero essere tratte, riviste e perfezionate, dal suo “Le muse inquietanti” del 1917. Nella loro statuaria immagine di esseri meccanici senza faccia, morfologicamente vicini all’uomo, furono ispirati dal fratello Savinio, pittore e scrittore che parlò, appunto, di un uomo senza volto, all’interno di uno dei suoi drammi. Si trattò di un modo, come un altro, per far combaciare attività artistica e affetto familiare. Sensibilità allo stato puro. Detto questo, l’immensa solitudine di queste immagini meravigliose rende perfettamente il concetto di public realation con cui il pubblico ha scelto di essere qui, proprio adesso, proprio oggi. Attraverso il vuoto cosmico creato attorno ad esse si sente mancare l’alito artistico con cui, solitamente, nasce una mostra, una fiera, una galleria… Intanto il pubblico si ostina verso un ben più elevato stimolo concettuale:

Delle maniche che escono da una parete nera accanto ad una donna che legge il giornale sdraiata sul pavimento di un finto atelier di moda, trasformato in una camera da letto. Ineccepibile; dalla forza emotiva ed emozionale senza paragoni. Sono esterrefatta. L’anno prossimo mi presento anche io, potrei addirittura fare di meglio.

Che pomeriggio incantevole, illuminante, sicuramente motivante e, sotto un certo aspetto, rassicurante. Ammiro i bravi artisti, quelli che partono da una base solida di studio ma hanno qualcosa da dire, qualcosa di profondo, quelli che sanno trasformare le loro inquietudini in emozioni potenti, tanto potenti da restare tali per secoli. Ci sono artisti, a noi contemporanei, giovani, ribelli, turbati da conflitti interiori visibili all’interno della loro produzione, che, in questo tugurio, hanno preferito non esserci. Hanno una loro linea, la seguono, percorrono una strada e hanno in mente sia il percorso che il punto di arrivo. Loro sanno, chi li guarda sa di non sapere ma di voler imparare. Qui in mezzo ho visto cose, oggetti, pezzi “d’arte” di cui fatico a dare una definizione artistica nel significato esatto del termine stesso. Allora la mia mente torna al povero De Chirico, assegnato ad un padiglione tra gli ultimi della fila, dopo le maniche strappate e gli specchi da Moulin Rouge. Capisco una cosa: se siamo giunti a questo, per quanto il pozzo sia profondo e non ci sia limite al peggio, d’ora in avanti, si potrà solo riemergere in superficie dando spazio a chi se lo merita, davvero.

Arianna Forni

 

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