“Quanti palloncini ci vogliono per far volare un sogno?”
(Dal cartone animato “Up”, 2009, Disney Pixar)
Nonostante, Jeff Koons, non sia più un ragazzino – nasce a York il 21 Gennaio 1955 – le sue opere e il suo modo di fare arte, in modo satirico e sprezzante, portano a galla il bambino che vive in lui elevandolo ad uno dei massimi esponenti dell’arte neo-pop. Schernisce il modo di vivere americano attraverso opere dal gusto, terribilmente, kitsch. Si lancia nel consumismo più spietato diventando, non solo un produttore di arte, un simbolo di virale comicità umana, trasmessa, soprattutto, attraverso la sua stessa immagine. Il suo stesso Io, imponente, prepotente, calamitante e catalizzatore di masse non oscura, in ogni caso, le sue opere, ponendole al di sopra di una linea di congiunta correlazione tra sé stesso e l’oggetto/arte esposto e prodotto. Un tutt’uno che non lascia scampo, se si è con lui non si può che essere al fianco delle sue opere; se si è contro di lui la sua arte dovrebbe precipitare nell’oblio. Peccato che di Shocking Balloons sia pieno il mondo. Per farla breve: la maggioranza sono “con lui”, la parte restante è solo tremendamente invidiosa di quel sorriso abbagliante, proprio accanto a quei maledetti palloncini colorati. Passa per essere l’artista più ricco al mondo, pare non esserci nemmeno la necessità di precisarlo. Questo aspetto, di certo, lo mette su di un piedistallo comodo dal quale osservare, dall’alto in basso, il suo stesso pubblico, concedendosi il beneficio di fare e di proprorre ciò che vuole, privo dell’ansia di dover impressionare e convincere qualcuno. Il suo nome è già un’icona, un brand che si vende da solo. Al diavolo il marketing: Jeff Koons è marketing, tanto da comparire nella campagna pubblicitaria di Louis Vuitton, nel lancio delle borse “d’autore” del 2018.

La produzione, in questo senso, diventa un atto secondario, privo di reale concitazione e stress pre e post. Koons ha la vita facile e, nonostante questo, è uno tra gli artisti più famosi al mondo. Perché? Semplice, è un’icona, un simbolo, un trend, un fashion idol. Un artista che ha saputo vendere sé stesso prima delle sue opere. Talmente irriverente nei confronti del suo stesso popolo, quello statunitense, da risultare troppo accattivante per non essere preso in considerazione. Koons è quel genere di artista che si permette di fare regali “scomodi” ad una città come Parigi per incentivare la sua popolazione a risollevarsi dai drammatici attacchi terroristici e questo, permettetemi, è cinico ma è uno stratagemma da Oscar. Tutto il mondo ha gli occhi puntati su di lui e su Parigi che parla di questo dono di difficile collocazione e che, conseguentemente, rimanda l’interesse sull’artista. Una pubblicità stratosferica creata attorno ad un regalo; i regali non si possono rifiutare, o, almeno, per buona norma, non bisognerebbe farlo. Parrebbe sconveniente. Oppure è apparso sconveniente il regalo stesso ma il suo sorriso, suvvia, è ammirevole e, di conseguenza, impossibile da giudicare. Strategia? Ma no, è solo il frutto di un carattere brillante dall’egocentrismo facile, a cui piace condurre i giochi a modo suo gestendo i teatrini e dando man forte a chi sa reggergli la parte. Un genio, forse; un pazzo, forse; l’artista più ricco del mondo: di sicuro.

Alcune delle sue opere appaiono quasi anacronistiche, in netto contrasto con il suo tempo, il nostro tempo, il tempo della tecnologia all’avanguardia e della concretezza prima di tutto. I suoi “Balloons” sono,scenografici, fanciulleschi e, in definitiva, ridicolizzano un pubblico affascinato dalla sua artistica genialità, quasi poetica. Bisogna guardare oltre per comprenderlo appieno; bisogna ascoltare le sue parole, leggere le sue interviste e interpretare nel profondo ogni concetto. Koons è enigmatico, difficile da comprendere. Parla dell’arte come di qualcosa di, estremamente, simbolico ma collegato direttamente con la nostra storia umana; ne parla quasi come se fosse un dovere avvicinarsi all’arte antica e a quella moderna e contemporanea seguendone la linea del tempo, solo così sarà possibile avere un quadro chiaro di ciò che siamo e di ciò che eravamo. Intanto lui sorride e noi, con lui, ci lasciamo coinvolgere da una storia che diventa attuale, tanto quanto egli stesso riesce a trasformarla in irriverente dimostrazione di sprezzante volgarità edotta al classicheggiante neo-pop rovesciato in neo-classico. Osservate e vi sarà tutto più chiaro:

Può esistere qualcosa di più ridiculous? Si, certo, i suoi palloncini colorati, sgargianti. Memorabile rimembranza del circo dei clown, quello stesso circo che, a conti fatti, Koons vede nelle strade dei giorni nostri. Ingigantisce il concetto di maschera, di palloncino, di infanzia, di incapacità nel discernimento nell’inconsapevolezza delle proprie scelte, nel tetro oblio all’interno del quale stiamo, deliberatamente, scegliendo di sprofondare da soli, accompagnati da tutto il resto del globo. Lui cosa fa? Ce lo mostra. Come? Con dei giganti palloncini Shocking dalle forme conosciute ma, pur sempre, interpretabili:
Ci prende in giro, si fa beffa di noi e noi lo lodiamo, anzi, specifico, chi lo loda maggiormente sono gli inconsapevoli. Chi cerca di svilirlo, di oscurarne la fama, sono gli edotti, coloro che comprendono la strategia, coloro che hanno capito cosa stia cercando di dirci e vorrebbero non sentirlo. Perché? Solo perché l’edotto, in quanto tale, crede di avere qualcosa in più rispetto alla media ed è quel più a non farlo rientrare nel girone degli inconsapevoli. Uno strano gioco di ruoli ben alimentato dell’arte di Koons che, in fin dei conti, torna a definirsi l’artista più ricco del mondo, nonché, un’icona stylish alla Louis Vuitton. Con lui si fa fatica a trovare una linea divisoria tra arte, marketing, personaggio e uomo; ha fatto di sé un’emblema inarrestabile e inscindibile dalle sue varie, e diverse, connotazioni, compresa quella artistica. In fin dei conti l’arte, in questo modo, diventa un meccanismo quasi politicizzante, una sorta di Apostolo vivente da amare o odiare, o amare e odiare in maniera contemporanea. Da notare come Koons riesca a confondere le idee e spiazzare un pubblico di affezionati, amanti dell’arte:

Questo meccanismo vorrebbe, semplicemente, ma non in modo semplice, rendere l’uomo libero dagli schemi, libero dai dogmi, libero dai cliché, libero dagli obblighi di sé stesso, libero proprio da sé stesso, libero in un contesto in cui la libertà implica il giusto rispetto verso gli altri individui, verso il luogo in cui si abita e, in definitiva, verso ciò che realmente siamo e decidiamo di essere. La libertà di voler vivere secondo dei valori solidi ormai inesistenti. Koons parla chiaro, è il popolo a non capire un accidente.
Un genio, un artista, un cinico, un menefreghista, uno che non ha bisogno di parlare tanto per farsi comprendere, basta un gesto e la folla ne parla male ma ne parla e lui resta l’artista più ricco del mondo, con il suo sorrisino stampato in faccia e la voglia di fare qualche altra scenetta irriverente a qualche città simbolo di questo mondo in involuzione, basato sul niente, sul consumismo spiccio e su uomini infantili per i quali le poltrone e gli abiti sono più importanti dei contenuti. Allora sono sufficienti i suoi palloncini. Ha ragione lui. Non valiamo nulla; se non abbiamo il coraggio di prendere in mano le nostre vite e le sorti di questo mondo, allora sì, non valiamo nulla. Jeffry Koons, un uomo, un simbolo; un giochino divertente da guardare finché non se ne capisce la profondità simbolicamente triste.
“I am what I am and that’s all I am.” (Popeye the Sailor Man, 1929)

Un Popeye moderno, un buono che difende i giusti dai cattivi, che vive di niente e diventa invincibile con gli spinaci. Chissà, magari Koons adora gli spinaci, oppure si nutre di arte e vive in una striscia parallela alla nostra, sarebbe giustificato il continuo sorriso scettico e irriverente verso una società dove, ahimé, attualmente, sta vivendo anche lui.
Che gli importa, in fin dei conti, è lui l’artista più ricco al mondo.
Arianna Forni