“Non ho paura dell’inferno, ma dell’immobilismo.”
(Fernando Botero, intervista di Roberta Scorranese al Corriere della Sera, corriere.it)
Fernando Botero, nasce a Medellìn, Colombia, il 16 Aprile 1932. Ha una vera e propria ossessione per il suo popolo di appartenenza, in particolar modo per il ceto medio di quella società colombiana pomposa. Illuminato e indottrinato attraverso uno studio continuo dell’arte antica, dell’arte italiana post ‘400 e di una sua espressività particolarmente semplice e diretta, inizia una produzione interminabile e sempre simile a sé stessa. Botero riesce ad arrivare fin nel profondo del cuore delle persone, ne sa leggere le necessità e sa raccontare delle storie in modo chiaro. La chiarezza è il suo punto di forza maggiore. Appare come un menestrello antico, sa coinvolgere, accentrare e nutrire un pubblico di settore e non; riesce a giungere nell’animo di tutti, anche dei meno affini al mondo dell’arte, ritenuto troppo complesso per essere avvicinato senza aver affrontato, precedentemente, studi di settore ben specifici. Alle sue mostre vanno tutti, anche quelli che di arte non sanno proprio niente, ci vanno per lui, ci vanno perchè, ciò che produce, appare piacevole e rilassante. Botero è un artista a tutto tondo, ha girato il mondo, dalla Colombia a New York, da Parigi all’Italia, più specificatamente a Pietrasanta dove, nell’intervista rilasciata al corriere.it, conferma di passare oltre due mesi l’anno. Ha un carisma particolare, trasmette pace e serenità, non traspare alcuna angoscia attraverso le sue opere ma, ritengo, che questo rigonfiamento eccessivo del corpo umano e animale nasconda un disturbo psicologico profondo legato agli eccessi della vita di oggi. Non si parla, solo ed esclusivamente, di obesità, si tratta di qualcosa che va molto oltre. Gli eccessi quotidiani si concentrano sugli sprechi, sull’abominio comportamentale di alcune sfere sociali, sul consumismo portato oltre il limite concepibile e concepito. Da qui nascono dei disturbi prepotenti e difficili da estirpare: la compulsività, legata a qualsiasi aspetto ossessivo, è il principale problema che affligge il nostro pianeta ed è delicatamente compulsivo il suo stesso modo di fare arte, di raccontare la sua storia. Il popolo lo adora. Ha trasformato sé stesso, e la sua produzione artistica, in un contenuto molto pop, molto ambito. Ha dato vita ad un brand che si è costruito da solo, senza particolari campagne marketing o pubblicità da “mille e una notte”. Si presenta come un uomo molto austero ma altrettanto buono, con i suoi pennelli in mano, è un’immagine che può solo incuriosire, spiazzare, soprattutto se accostato ai suoi quadri eccentrici nella forma, quanto realistici e familiari nel contenuto.

La cosa formidabile è poter parlare di un artista, ancora in vita, che ha percorso e precorso i tempi in una sfera temporale, cosmica, in uno sviluppo storico, sociale e artistico molto ricco e potente. Nasce nel 1932, gli anni di De Chirico, Savinio, Guttuso, De Pisis, Fontana, anni di avanguardia, anni di sperimentazione, anni, in Italia, intrisi di fascismo. Botero è salvo, non è un Balilla, pur essendo un bambino, Botero è a Medellìn, con la sua famiglia, appartenente alla media borghesia locale. Inizia la sua carriera molto giovane, la sua prima esposizione avviene nel 1948, proprio nella sua città, ed è subito un tripudio di commenti positivi e apprezzamento. Lui non parla del mondo, lui parla del suo mondo, della sua Colombia, di quel microcosmo in cui è cresciuto, tutt’ora prosegue in questa direzione e continua a ricevere gli stessi complimenti. Non ha bisogno di comprare il plauso del pubblico, parlando di un mondo totalizzante, non gli serve, gli basta essere sé stesso, nel limitante contesto di casa sua, per essere famoso in tutto il globo. Non è da poco, se ci pensate, ma è possibile grazie alla sua infinita capacità di raccontare, seppur sempre la stessa storia, attraversando i Paesi più intrisi di cultura che, di conseguenza, possono apprezzarne le grandi qualità e capacità concettuali.

La dilatazione estrema dei soggetti rappresentati non ha solo uno scopo di rappresentazione consumistica di un mondo obsessed with money ma anche, e soprattutto, gli regala la possibilità di stendere il colore in modo uniforme, quasi piatto nell’assenza totale di ombreggiature che ne limiterebbero la potenza. Il colore è, per Botero, l’unico scopo per cui bisogna dipingere. Il colore è l’arte, è il motivo per cui bisogna osservare un suo quadro; i suoi personaggi non hanno espressioni, hanno gli occhi fissi nel vuoto, immobili, privi di lucentezza, sono bambole giganti inserite in un contesto asettico nonostante un parziale realismo d’insieme. Botero colora, ed è il colore ad ispirarlo, è lo stesso colore ad affascinare il suo pubblico. Questo “Bambino con un passero”, del 1965, era stato valutato 250.000€ e, a dimostrazione di quanto sia, veramente, apprezzato, è stato venduto a 248.000€. Tale equità di giudizio tra battitore d’asta e pubblico denota una cosciente consapevolezza del valore di un’opera il cui scopo è la chiarezza, come egli stesso spiega in svariate occasioni.
Guardate questo accostamento tra “Dancers at the Bar”, 2001 e “Miss Riviere”, sempre del 2001:

In queste due opere è perfettamente visibile il concetto di colore e staticità dei soggetti, di cui abbiamo parlato poco fa. La ballerina è una perfetta combinazione di stabilità statuaria in totale assenza di emozione, lo stesso riflesso nello specchio non presenta apparenti differenze coloristiche, se non una leggerissima tonalità più scura di alcune parti del corpo e degli abiti, restando piatta nel sottile dinamismo prospettico; lo sguardo è l’ultimo tocco di classe di Botero: morbidamente triste e fisso in un vuoto interno al quadro, in totale distacco dal pubblico che osserva. “Miss Riviere” potrebbe essere leggermente diversa rispetto al suo stile semplicistico. Indossa un abito ricco di pieghe in contrasto con il corpo che lo indossa, le gote leggermente arrossate, forse di vergogna, e quell’ombra accennata a distinguere il collo dall’inizio del volto; i capelli sono incollati alla testa, non hanno volume, non hanno forma, sono immobili, così come restano, ancora una volta, immobili gli occhi, non hanno nemmeno le ciglia. Non sono “donne grasse” come sono state descritte in troppe occasioni, sono figure fatte di colore ed è il colore che, espandendosi, crea un rigonfiamento deformante su dei soggetti normali. Si crea una sorta di ambivalenza intellettuale e visiva, tra realtà e morbidezza, laddove ciò che appare morbido è, in definitiva, solo una superficie tale da concedergli la possibilità di stendere il suo amatissimo colore perfettamente dosato e mai eccessivamente luminoso.
L’eccesso moderato da un linguaggio appiattito e opacizzato: questo è Fernando Botero.
Osseriamo questa bambina, forse una damigella, vestita a festa, infiocchettata e pomposa:

Non cambia nulla, la centralità accattivante del quadro resta, ancora una volta, il colore. Quel fiore sul vestito e tra i capelli, quella gonna dal tessuto spesso gli permettono di dimostrare la sua maestria nella creazione di un colore unico. Piatto, opaco, immobile ma unico. Il colore di Botero vale più della sua stessa firma. Il colore è l’anima delle sue opere.
Possiamo discutere sull’immagine di un’obesità eccessiva che non si confà allo spirito salutista dei nostri giorni, possiamo arrovellarci attorno al motivo per cui non abbia scelto dei panorami per stendere il suo colore meraviglioso, possiamo parlare per delle ore attorno ad un argomento che ha una sola risposta: Botero vuole esaltare il suo popolo, la sua terra, le sue abitudini di bambino colombiano. Vuole ricordare la sua terra ma, allo stesso tempo, vuole distinguersi attraverso una pittura diversa da quella a cui eravamo abituati. Piace a tutti, ci sarà un motivo. Piace ai grassi e piace ai magri, piace perchè ti regala la sensazione di poter toccare e sentire una morbidezza gommosa piacevole al tatto. Piace perché sa essere ridicolo pur nella maestria di un pittore edotto da uno studio profondo dei grandi maestri classici di tutto il mondo.
Noi osserviamo, guardiamo, sorridiamo divertiti e ci viene in mente una battuta di Geppi Cucciari:
“Il problema non è che siamo noi che siamo grasse, sono le taglie che sono piccole.”
Arianna Forni
