“On ne voit bien qu’avec le coeur. L’essentiel est invisible pour les yeux.”
(Antoine de Saint Exupéry, “Le Petit Prince”, 1943)
Lo sguardo è un amico, un complice, un antagonista, un rivale attento, un degno specchio dei nostri errori e, altrettanto, delle nostre capacità. Lo sguardo è un mezzo di comunicazione. Esatto: come lo smartphone, come i PC e i Tablet, come l’ormai obsoleta televesione e gli ancora più arcaici giornali cartacei. Lo sguardo ha una grande capacità che solo lui possiede: sa mettere l’uomo nella condizione, terrificante, di una anxious introspection. Non deve per forza essere anxious ma l’introspection, in quanto tale, non può che lasciar emergere parti nascoste di noi stessi e di chi ci sta accanto. Pregi, difetti, sogni, demagogia politica, insinuata ovunque, soprattutto, dove meno te lo aspetti, soprattutto, laddove non sei pronto a cogliere l’introspezione di ciò che osservi. Non puoi far altro che caderne vittima, prendere decisioni affrettate, sicure, grazie ad una metodologia espressiva che coglie il profondo dell’ego umano ingabbiandone la capacità cognitiva. Lo sguardo può essere interiore, un’introspezione accurata dei nostri desideri per scoprire chi siamo veramente; può essere esteriore, verso ciò che ci circonda, cose, persone, animali, paesaggi, non necessariamente vincolato ad un’unica cosa; può essere concentrato, ricambiato, sentito, tangibile tanto da farci vibrare. Lo sguardo corrisposto, nell’insinuarsi dell’occhio nell’occhio di un’altro essere umano, è la cosa più complicata e ardua da descrivere. Nella norma, la maggioranza delle persone, evitano tali situazioni: l’ascensore è, tipicamente, la situazione più imbarazzante in assoluto, per fortuna, al giorno d’oggi, ci salvano gli smartphone; l’imbarazzo nasce dall’incrociare lo sguardo altrui. In effetti “gli occhi sono lo specchio dell’anima” e nessuno vorrebbe, deliberatamente, condividere la sua anima con uno sconosciuto. Meglio fuggire o prendere l’ascensore successivo, con una qualsiasi scusa credibile. Eppure capita, in rare occasioni, di incrociare uno sguardo connesso al nostro, vicino al profondo del nostro ego nascosto; uno sguardo amico pur nella sua estraneità. Ci giustifichiamo: potrebbe trattarsi di un condizionamento mentale, ma se così non fosse? Se, invece, esistessero delle persone in grado di guardarci all’esterno per leggere il nostro cuore? Magari fosse così. Mi capita di volerci credere, altrettanto, mi capita di voler evitare di trovarmi in queste ambigue e ambivalenti situazioni dal difficile controllo emozionale. Meglio restare su un piano asettico, in cui lo sguardo viene adoperato ad hoc, in rare situazioni lavorative o amicali di cui abbiamo matematica certezza, in cui ci sentiamo nella nostra comfort zone. Già, comfort zone è un termine che regala a tutti quella razionale serenità data da un sicuro controllo degli avvenimenti in essere e in divenire. Non siatene sempre così certi. L’esperienza insegna a guardarsi bene dalle proprie zone di tranquillità, fisica ed emotiva. Tutto cambia, basta un lampo, di genio o di fulmine. Lo sguardo è un idolo moderno, è fuori dalle regole del buon vivere, non rientra nelle nostre priorità. Abbiamo internet, abbiamo i social, abbiamo whatsapp e, udite udite, abbiamo i messaggi vocali, il che significa che possiamo esprimerci e comunicare sulla base di un ragionamento a priori, svolto con metodo, giudizio e adeguata costruzione. Non possiamo, non vogliamo, sbagliare tono, contenuto e, in modo primordiale, non è ammesso rendersi ridicoli. Da qui nascono i problemi relazionali di molte nuove generazioni, non abituate al rapporto diretto; stentano ad avere una consapevolezza di linguaggio e una nutrita esperienza nella risposta, sempre pronta e sempre sbagliata. Il gioco si basa sulla sottile convivenza tra egocentrismo di massa e personale desiderio di emergere, tra mistificazione del follower facile (o acquistabile che dir si voglia) e la relazione diretta con un individuo come noi. Si tratta di evitare il fuggi fuggi dalle discussioni “live”, con la convinzione che il discorso digital sia più immediato e ricettivo. Uno sguardo:
“Imagine there’s no heaven
It’s easy if you try
No hell below us
Above us only sky
Imagine all the people
Living for today…”
(John Lennon, “Imagine”, 1971)
Per imparare a vivere il momento che ci appartiene dobbiamo imparare a guardarci attorno e ad incrociare quegli sguardi che ci fanno tanta paura. Inserirsi in un contesto significa percepirne il bene e il male e imparare a distinguerne le differenze. Non conta aver incrociato solo lo sguardo del bene per tutta la vita, questo non ci tutelerà dal dolore. Lo sguardo è l’essenziale. L’essenziale è la vita. Lo sguardo è la vita. I sillogismi non li ho inventati io, purtroppo, appartengono ad Aristotele, 384 a.C., la conclusione, adesso, tiratela voi.
In arte gli sguardi hanno molteplici relazioni, tra loro e con il pubblico. “Narciso”, di Caravaggio, del 1597-1599, è l’emblema dello sguardo dei nostri social network, dei nostri egocentrismi facili, dei nostri no-filters’ selfie. Lì, con lo sguardo sempre più vicino all’acqua; lì a compiacersi della sua bellezza; lì a cercare di convicersi di essere bello perché, come il popolo del web nascosto dietro una telecamera, non ha il coraggio di ascoltare i pareri altrui, non ha il coraggio di reggere lo sguardo di qualcuno che, forse, potrebbe essere meglio di lui. La paura. Un concetto che, ribaltato in qualsiasi direzione, torna sempre a galla a dimostrazione di quanto codardo e autolesionista sia l’uomo.
Ora, però, guardiamo Rembrandt. Il suo “Autoritratto” del 1669:

Questo è uno sguardo. Sicuro, delicato, non invasivo ma determinato ad osservare chi lo sta osservando, volto alla costruzione di un rapporto di reciproca stima tra chi osserva e Rembrandt stesso. Non vi sembra di poterlo vedere vivo, veramente? Non sentite la potenza dei suoi occhi su di voi. Questo intendo per sguardo. Questo intendo per saggezza e consapevolezza di sé stessi. L’oscurità apparente del quadro lascia emergere una luce proprio dagli occhi, sì, in questo caso, sì: sono lo specchio dell’anima, della sua anima e di chi avrà il coraggio di reggere lo sguardo.
Amedeo Modigliani adorava dipingere le sue donne, le sue conquiste, le sue amanti. Non aveva pudore, in questo senso, sapeva trarre ispirazione ma quella stessa ispirazione era priva di reale sentimento e infatti, a dimostrazione di quanto stia dicendo, nel 1917 dipinse “Jeanne Hébuterne con grande cappello”:

Sembra cieca. I suoi occhi non esistono, non sono nemmeno accennati; sono un buco azzurro dentro un volto femminile. Il suo sguardo non ha niente, né attrazione, né emozione, né partecipazione; probabilmente, questo era il legame che Modigliani aveva con Jeanne: un rapporto privo di un reale rapporto, una relazione priva di comunicazione. Non sostenere lo sguardo di qualcuno, evitarlo, sentirsi disturbati dalla pesantezza di avere quegli occhi addosso è un insulto al rapporto stesso, è un chiudere tutte le porte alla propria anima. Ed è tremendamente attuale.
Poi abbiamo una contemporanea, Roberta Coni, nata nel 1979 a Roma, gira il mondo alla ricerca di ispirazione e frequenta accademie d’arte di grande livello. Studia e affina la sua tecnica fino a riuscire a trovare una sua, personale, linea da seguire. Parrebbe una sognatrice ma lei, a differenza di molti altri, sogna attraverso lo sguardo, difficile dire se si tratti del suo o sia pura fantasia. C’è qualcosa nei suoi quadri che cerca di insinuarsi dentro chi osserva:
Ed è lo sguardo. La prima cosa su cui devi soffermarti guardando i suoi quadri sono gli occhi delle ragazze dipinte. Tristi, ambigui, maliziosi, sensibili, emozionanti, non importa, ciò che importa è che stiano cercando di dirci qualcosa. La ricerca della perfezione ha un limite molto molto alto, irraggiungibile. Siamo uomini, siamo semplici, possiamo essere studiosi, grandi lavoratori, grandi professori ma restiamo uomini la cui vita è circoscritta in un andirivieni di sguardi connessi e tristi rifiuti. Possiamo essere i padroni dell’universo ma avremo sempre qualche sguardo da sostenere senza sapere come fare.
La sensibilità è la base di tutto questo ma non è da tutti. La sensibilità è quella virtù che ci garantisce di non restare anonimi in un mondo di sguardi vuoti, alla Modigliani. La sensibilità ci contraddistingue perché ci permette di osservare oltre l’individuo, guardando ciò che sta dietro il valico interminabile che passa attraverso gli occhi per giungere al cuore.
“E ho guardato dentro un’emozione e ci ho visto dentro tanto amore che ho capito perché non si comanda al cuore.”
(Vasco Rossi, “Senza parole”, 1999)
Arianna Forni
