“È ormai noto che diversi sono i nomi che gli uomini impongono per designare i concetti, e uguali per tutti sono solo i concetti, segni delle cose”

(Umberto Eco)

L’arte concettuale prende vita, negli Stati Uniti d’America, intorno alla metà degli anni ’60 grazie a Joseph Josuth, nato a Toledo nel 1945. La base, fondamentale, su cui si delinea questa corrente artistica è, espressamente, il concetto nudo e crudo, privo di fronzoli e bellezze, prettamente, artistiche. Un concetto è un concetto e l’arte concettuale, appunto, ce lo presenta come tale, privandoci della consueta, e allettante, filosofia artistica dell’emozione generata dal bello, dall’affascinante, dal sublime, dall’orrido, da qualsiasi immagine possa suggerirci una reazione, sia essa positiva o negativa. In questo filone artistico manca tutto; si presenta minimal e minimalista nell’espressione e nell’esposizione. Resta solo il concetto, legato ad una cosa o una parola, su cui ragionare in modo, drastico, oggettivo, privo di sentimento. L’emblema, il manifesto, di questa assurdità culturale è proprio l’opera di Joseph Josuth:

One and Three Chairs, 1965, - da Edizioni Grenelle
Joseph Kosuth, “One and Three Chairs”, 1965, – da Edizioni Grenelle

“Una sedia e tre sedie”; un concetto visivo, concreto e enunciativo che si esplica attraverso una fotografia, una sedia reale e una sua definizione da vocabolario. L’insieme va assimilato come tale, non bisogna scindere o prescindere dall’unione dei tre elementi, solo il paragone, volutamente, creato tra loro può definirne il concetto. La sedia. A questo punto, prima di passare oltre e mostrarvi le varie evoluzioni di genere, è bene fare alcune considerazioni. Gli anni ’60 sono stati un bacino ricco di avvenimenti storici, positivi e negativi, che hanno iniziato a stabilire e prefigurare forti divergenze di pensiero tra la politica e, di conseguenza, tra una popolazione politicizzata e radicata in quei dogmi a cui si stava, irrimediabilmente, legando. L’opera “Una sedia e tre sedie” è del 1965, un anno decisamente importante. Da una parte, gli americani e la guerra in Vietnam. Dopo la Conferenza di Ginevra, e l’effettiva divisione tra Vietnam del Sud e Vietnam del Nord, la situaizone non stava delineando niente di buono. Gli americani spedirono le loro truppe nel Sud della regione, mentre Cina e Unione Sovietica si prodigarono per sostenere il Nord. La guerra fu potente, straziante e sanguinosa, con esito finale che vide un Nord trionfante, la capitale Saigon distrutta e una fittizia riunificazione del Paese devastato da anni massacranti. Da un altro lato abbiamo Malcolm X e Martin Luther King jr., entrambi politici e attivisti per i diritti umani, sociali e lavorativi, degli afroamericani in USA. Entrambi vittime di omicidio, il primo proprio nel 1965 e il secondo nel 1968. Contemporaneamente, la Olivetti inaugura il primo Personal Computer, una frivolezza paragonata ai drammi ma utile a stemperare la tensione. Questa innovazione mostra al mondo come le cose stessero, veramente, cambiando, quanto la tecnologia avrebbe resettato il modo di vivere della maggioranza delle persone. Un’icona positiva iniziava a galleggiare sui litri di sangue versati, giustamente o ingiustamente. Inizialmente sembrava davvero difficile credere che questo potesse essere realizzabile; tecnologia era un vocabolo molto lontano dall’uomo di quegli anni, spaventava parecchio. Inoltre, mancavano le basi di una sicurezza culturale ed economica globale. Molta gente doveva barcamenarsi per sopravvivere, altri aizzavano proteste e guerriglie cittadine tra fazioni opposte, alcune ancora legate al movimento nazi-fascista, altre hippy con una forte contrapposizione con i razzisti incalliti e, infine, i “fate l’amore non fate la guerra” con “Proposta”: mettete dei fiori nei vostri cannoni (i Giganti, 1967). Il groviglio non era facile né da governare né da controllare. C’era tutto ma non c’era niente. Mancava una linea comune. Mancava un’educazione sociologica forte e stabile. Si passava dalla medio-alta borghesia, benestante e acculturata, ad uno stuolo di movimenti giovanili negativi per l’intera società globalizzata. Si percepiva malcontento e un incipit di pericolo in aumento, fino al culmine dei giorni nostri. Un resoconto, stringato, che ci permette di tornare su quel concetto molto concettuale e poco artistico: siamo il risultato del nostro passato. Avremmo, forse, fatto meglio a pensarci prima. Le consequenziali conseguenze sono solo il risultato di una semplice addizione: due più due fa sempre quattro, ahimé. Sempre nel 1965 viene inaugurato il Traforo del Monte Bianco, un modo per avvicinare l’Italia al mondo straniero, dimostrare quanto la globalizzazione fosse analoga in tutti gli altri Paesi del mondo e concedere attimi di distrazione, vacanziera, a chi se lo poteva permettere. Le distanze fisiche iniziavano ad accorciarsi mentre quelle mentali, i valori e le impostazioni di vita, prendevano strade sempre più distanti le une dalle altre. Ecco, gli anni ’60 hanno creato quella spaccatura sociale visibile, e vivibile, oggi, nel 2018, con manifestazioni di piazza pesanti, desideri di rivalsa personale e socio-politica dei meno abbienti, lotte di classe e invasioni barbariche stratosferiche. Nasce un incastro psicotico tra destra e sinistra, tra moderati e attivisti, tra menefreghisti, emigrati e super eroi moderni pronti a salvare il mondo dal male. Ognuno lavora per sé, lotta per sé, guarda al suo personale giardinetto, preserva i suoi interessi a costo di calpestare quelli altrui. Non c’è ordine e non c’è logica. Il caos regna sovrano e noi, acculturati, facciamo harakiri per non doverci scontrare con l’ignoranza dirompente. Un contesto talmente vivo da poter porre basi, inequivocabili, per la nascita di nuove correnti artistiche dal forte impatto emotivo e sentimentale. Invece, in un crash inatteso, succede qualcosa di inaspettato e totalmente assurdo. nasce l’arte concettuale, diramata e ammirata in tutto il mondo. Un obsoleto ritorno alle origini, alla totale insensibilità, alla privazione, consapevole, di coerenza alla nostra cultura e all’immancabile sofferenza di chi ha costruito la sua virtù esistenziale, proprio, sullo studio approfondito.

Un primo esempio, del 2000, è On Kawara, con una serie di opere intitolate “Today”, iniziate, per l’appunto,  nel 1966:

Nel 1966 Kawara iniziò una serie di dipinti intitolati today
On Kawara, serie intitolata “Today” dal 1966 – da Wikipedia

Il nulla, il niente, l’Apocalisse dell’espressione, l’azzeramento totale dei sentimenti, la privazione della fantasia. Uno zero assoluto nel campo dell’arte, eppure considerato, a tutti gli effetti, un esponente, di tutto rispetto, dell’arte concettuale giapponese. Paradosso o meno, non si può far altro che essere critici, pesantemente critici, non nei confronti del conformismo a cui Kawara si è, perfettamente, adeguato ma verso coloro che ne hanno determinato un posizionamento nella storia dell’arte.

Yves Klein, dopo innumerevoli tentativi, nella ricerca dell’opera perfetta, del colore perfetto, della nitidezza perfetta, riesce, nel 1956, a trovare la sua ineguagliabile tinta di blu; lo fa attraverso quest’opera:

Yves Klein, 1956, la più perfetta espressione del blu
Yves Klein, 1956, la più perfetta espressione del blu – da Wikipedia

Klein è famoso per il monocromo, uno stile di vita più che uno stile pittorico, oserei dire quasi uno stile psichiatrico ma queste sono considerazioni estemporanee nei confronti di un artista riconosciuto ovunque nel globo. Intorno agli anni ’50/’60, decise di dover, assolutamente, trovare il modo di rendere il blu, inequivocabilmente, blu. Sarebbe dovuto essere, lucido, plasmato sulla tela, nitido, insomma, blu. Blu e basta. Non era, di certo, una cosa facile, con tutti i blu che ci sono in giro, trovare il Re dei blu, non deve essere stato un processo semplice. Non lo è stato sicuramente e, altrettanto sicuramente, avrà portato a numerosi tentativi prima di giungere a questo. Il procedimento di formazione e produzione dell’opera, però, non ci riguarda; riguarda solo ed esclusivamente Yves Klein e i suoi presunti problemi relazionali con il blu. Speriamo che, con questo, li abbia risolti. Noi, nel frattempo, sarebbe meglio passassimo a fare una visita dall’oculista.

Nel frattempo, un italiano, cerca, suo malgrado, di seguire le orme concettuali dell’arte di quell’arido periodo. Alighiero Boetti, in epoca un po’ più tarda e quindi leggermente meno piatta, dà vita a un’opera “Untitled (Venticinque per venticinque)”, era il 1989:

Alighiero Boetti, Untitled (Venticinque per venticinque), Gladstone Gallery, 1989 - da Pinterest
Alighiero Boetti, Untitled (Venticinque per venticinque), Gladstone Gallery, 1989 – da Pinterest

Un ricamo, non un dipinto, un concetto legato ai giochi di parole da “Settimana Enigmistica”, con qualche richiamo arabeggiante. Provate a leggere partendo dalla prima lettera in alto a sinistra, la V, fino ad arrivare alle E, in basso a destra. A parte il fatto di dover, immancabilmente, tornare dall’oculista, che cosa siamo riusciti a trarre da queste lettere colorate? Forse un concetto infantile, forse l’analogia con un prisma colori, forse la sensazione di ubriachezza che ci rende instabili, forse niente, ed è la cosa più probabile, però almeno è meno piatto di tutti gli altri.

Arte concettuale e concetto, lo abbiamo capito, non sempre vanno di comune accordo. Il concetto è nella testa dell’artista che decide di proporci la sua opera, non faccio citazioni squallide perchè le trovo fuori luogo ma ho visto opere concettuali irripetibili e indegne di essere annoverate in un libro d’arte, vera. Resto dell’avviso che il concetto parta sia da una definizione, come può essere quella della sedia, sia da un ragionamento. Definizione e ragionamento passanto attraverso lo studio e l’emozione che ne scaturisce; è una conseguenza diretta. La storia ci suscita emozioni e sentimenti, l’arte dovrebbe lasciarci il beneficio di fermare il tempo e approfondire quanto studiato, appreso e metabolizzato. L’arte ci pone di fronte a qualcosa che conosciamo, concedenoci lo sfizio di osservare il mondo da un altro punto di vista. Questo concetto, questi concetti ci annientano e, con noi, annientano anni di studi minuziosi.

In apertura troviamo “All art has been contemporary” di Maurizio Nannucci. In realtà ha, un filino, copiato dall’ideatore di questo splendido filone, Joseph Kosuth, i led luminosi erano suoi:

Joseph Kosuth 1960 - da Mih Jeans
Joseph Kosuth 1960 – da Mih Jeans

D’altra parte, ormai, è cosa comune lasciarsi ispirare, Nannucci non è stato da meno. Quanto sono profonde, però, le sue parole colorate:

Maurizio Nannucci
Maurizio Nannucci

Arianna Forni

 

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