“La società può rendere i comportamenti collettivi migliori di quelli individuali nella massima parte dei casi, purché la Società stessa intervenga attivamente.”

(Emile Durkheim, “Il suicidio. Studio di sociologia”, 1897)

Emile Durkheim, fondatore della prima rivista sogiologica francese, nel 1898,L’Année Sociologique”, è l’ideatore del concetto stesso di sociologia, di rapporto tra esseri umani, di connivenza tra popoli e tra differenti religioni, tra diversi modi di pensare e diversie abitudini. Ha stabilito, prima di altri, quanto dei gruppo sociali, uniti tra loro, potessero rendere accettabili determinati atteggiamenti, singolarmente considerati criminosi, laddove criminoso ha un significato differente da illegale, significa, prettamente, distante e incongruo rispetto al bene comune, al pensiero sociale generale. Uno studio di questo tipo prevede un approfondimento antropologico legato, proprio, alle abitudini delle persone, inserite nel proprio personale, e sociale, contesto. Le classi sociale creano, di per sé, delle diversificazioni tra individui, alcuni sono annessi e connessi l’uno all’altro, altri separati alla nascita da condizioni familiari ed economiche troppo lontane dai ceti superiori. Una mescolanza di ceti provoca uno squilibrio sociologico impossibile da controllare. Da qui nascono contestazioni, rivolte di massa e insoddisfazione di quella sfera limitata nelle possibilità, sia culturali che lavorative e, conseguentemente, sul piano degli svaghi concessi, e permessi, dalle proprie tasche. Una situazione, paradossalmente, identica a quella che stiamo vivendo al giorno d’oggi. Così come l’arte ci dimostra quanto l’uomo non sia cambiato di molto, anche la sociologia ci spiega quanto l’interazione relazionale tra uomo e uomo non abbia subito grosse variazioni. Durkheim è il primo a stabilire cosa abbia, davvero, una connotazione sociologica nell’ambito delle attitudini umane e dei suoi comportamenti. Esitono attività sociali comuni, moderate da situazioni quotidiane stabili e regolamentate dall’educazione, dal quieto vivere e dalle leggi; esistono, poi, condizioni patologiche, in quanto tali, fuoriescono dal normale comportamento umano e socialmente accettabile, quindi, da sottoporre ad uno studio specificio che ne chiarisca le motivazioni riportanto il soggetto, in questione, entro le linee guida del proprio mondo di appartenenza. Per stabilire normalità e patologia bisogna, però, effettuare uno studio sulla base della diffusione di un determinato comportamento, più gente farà una certa cosa e più sarà immediato comprenderne la normalità, di conseguenza, meno gente avrà un certo sistema di azione e più potrà essere considerato patologico. La cosa interessante è che normalità e patologia spesso si intersecano, l’una con l’altra, in quanto il modificarsi dell’ambiente circostante crea modifiche relazionali e comportamentali degli individui, presi sia singolarmente che in gruppo. Non vogliamo parlare espressamente di studio sociologico e di Durkheim, vogliamo, però, introdurre questo argomento per comprendere un nuovo modo di approcciare l’arte, in nostro per l’appunto, ovvero attraverso uno studio sociologico dell’arte stessa. Se prendiamo vari esempi di artisti, contemporanei e non, possiamo capire quanto la base sociale, e sociologica, in cui vivevano, o vivono, li influenza nella propria produzione artistica, condizionando l’aspetto critico ed emozionale di chi osserva. Prendiamo, ad esempio, Georges Seurat con la sua “Giovane donna che s’incipria”, del 1889:

Georges Seurat, Giovane donna che s'incipria 1889 - da Wikipedia
Georges Seurat, Giovane donna che s’incipria 1889 – da Wikipedia

Partiamo con un’opera abbastanza tarda, un puntinismo delicato, colori tenui e discreti in un contesto casalingo o dietro le quinte di qualche spettacolo teatrale. La scena è bene inserita nel contesto sociologico di quegli anni, in una Francia rigogliosa, in cui la bellezza femminile veniva lodata e ricercata come l’aria fresca. Il centro dell’opera è, appunto, una donna, un’attrice, forse, una ballerina, forse, o forse solo la compagna di qualcuno che attende il suo arrivo cercando di rendersi il più appetibile possibile. Da un punto di vista stilistico si può notare quanto la centralità della tela, la donna, sia sproporzionata rispetto ai restanti oggetti, il tavolino e la finestra. Questo divario ha un significato preponderante: la donna è il centro di quell’universo maschile, vicino agli atelier, vicino alle mostre, alle aste e, di conseguenza, doveva essere colpito nel suo intimo che, guarda caso, era sociologicamente accettato come piacere comune. Una donna, una fonte di ispirazione e di ardente desiderio, quindi una possibile attrazione verso l’acquisto della stessa opera, fonte essenziale per la vita dell’artista.

Vogliamo, ora, spostare la nostra attenzione sulla gloriosa presenza scenica di “Carlo V a cavallo”, del 1548, dipinto da Tiziano. Una scena epica, avvincente che bene si addice alle connotazioni socialmente accettabili di quel tempo, la metà del 500:

Tiziano Vecellio, Ritratto di Carlo V a cavallo, 1548, - da Wikipedia
Tiziano Vecellio, Ritratto di Carlo V a cavallo, 1548, – da Wikipedia

Idolatrare il condottiero, ammirarlo in tutta la sua potenza, nella sua bellezza senza eguali, sul suo cavallo altrettanto bello e forte, entrambi bardati da battaglia, bardati da Re e da Re dovevano essere osservati e lusingati. Questa era la sociologia del 500, era il modus vivendi dei popoli, era ciò che dovevano fare per rendersi utili e accettabili dal loro sovrano. In questo si può notare quanto la sociologia cambi non nei termini di giudizio ma in quelli di paragone; cambia il soggetto artefice dell’atteggiamento comune spostando la patologia sul comportamento opposto, scostante, che, a quel tempo, avrebbe condotto, il malcapitato, a morte certa. Tiziano era un artista ben introdotto nella sua epoca e sapeva con certezza ciò che era giusto fare e ciò che, per salvare la pelle, sarebbe stato meglio non prendere in considerazione. Questo ritratto dimostra la sua fedeltà alla Corona, il suo amore incondizionato verso quel ceto regnante, non importa se pensasse o meno ciò che ha dipinto, l’importante, sociologicamente parlando, è che lo abbia fatto. L’arte è un mezzo di comunicazione molto potente e Carlo V non può che aver apprezzato.

Alti livelli, bassi livelli, mediocrità e illuminati, viviamo in un mondo costituito da svariate categorie sociali, ognuna di esse forma delle micro-società interiori che garantiscano situazioni di comodo, di tranquillità emotiva e di stress limitato. La generazione dei problemi sorge quando un individuo decide di uscire dalla sua schiera per infilarsi in una nuova che accresca il suo posizionamento o lo svilisca, limitandone il raggio d’azione. I motivi di questa scelta possono essere svariati: desiderio di fare una carriera più importante, di conoscere gente di un livello più elevato oppure, al contrario, insofferenza e voglia di vivere in un contesto più semplice, nel quale apparire migliore di ciò che, realmente, si è solo per un coinvolgimento partecipativo ad un micro cosmo di un livello, nettamente, più basso. Entrambe le situazioni destabilizzano e possono portare a drammi personali o di gruppo oppure, più semplicemente, a dietrofront rapidi per rientrare da dove si è venuti, il più in fretta possibile.

Guardiamo l’opera di Jean-François Millet, “Pastorella con il suo gregge”, del 1864:

Jean-François Millet, Pastorella con il suo gregge, 1864 - DA wIKIPEDIA
Jean-François Millet, Pastorella con il suo gregge, 1864 – da Wikipedia

La povera pastorella è ormai stanca e infreddolita, la giornata volge al termine e ha svolto, diligentemente, il suo lavoro, le pecore sono in gregge, aiutata dal suo fedele cane, visibile sul limitare destro della tela. Deve rientrare, riportare il branco nella stalla e dar loro da mangiare per poi chiudere le porte e dirigersi verso casa dove, probabilmente, dovrà preparare la cena e rassettare le stoviglie e la stanza dove dovrà dormire. Non si sa se abbia marito, figli, oppure una famiglia d’origine ad attenderla, si sa, però, attraverso il suo sguardo, quanto non sia felice né soddisfatta, quanto sia distrutta da quell’ennesima giornata nei campi. Il lavoro non si addice ad una ragazza, un uomo sarebbe più forte, più resistente ma, di qualcosa, si deve pure vivere e lei sta facendo tutto ciò che le è possibile fare per rendersi utile a sé stessa e ai suoi cari, chiunque essi siano. Forse, l’immagine, era socialmente accettabile e, dal punto di vista sociologico, non aveva niente di così drammatico ma, stando al punto di vista di Millet, pare non essere esattamente così. La tristezza di questa tela, dimostra i divari sociali inadatti e inaccettabili già nel 1864, sarebbe come vedere, oggi, una donna in fonderia o a scaricare le cassette del pesce al porto commerciale.

Lo stesso vale per “Le spigolatrici”, del 1857, sempre di Millet, ma con un sentimento leggermente diverso:

Jean-François Millet, Le spigolatrici, 1857 - da Wikipedia
Jean-François Millet, Le spigolatrici, 1857 – da Wikipedia

Intanto sono tre donne di colore e già questo dimostra quanto, per impostazione sociologica, si ritenesse un lavoro non adatto alle classi bianche ma indirizzato, esclusivamente, agli immigrati, da qualsiasi Paese arrivassero. Sono, in ogni caso donne, quindi, a maggior ragione, si riteneva essere un lavoro destinato al sesso femminile, mentre l’uomo doveva occuparsi di altre questioni, più pesanti o più intellettuali. Dal punto di vista sociologico notiamo due differenti aspetti, il primo, possiamo dire, patologico, l’idea, appunto, che solo le donne di colore fossero adatte a questo mestiere, il secondo, tristemente, accettabile dalla maggioranza della popolazione, ovverosia, che spigolare fosse un lavoro da donne. Ci rendiamo, perfettamente conto, di quanto entrambe le considerazioni abbiano una buona dose di patologia all’interno ma che, causa la società di quegli anni, con i propri usi e costumi, si trasformavano in consuetudini di poco conto, da non prendere nemmeno in considerazione. L’evoluzione sociale ha portato a un ribaltamento della condizione globale delle donne rispetto all’uomo e della considerazione del ruolo delle persone di colore introdotte, regolarmente, all’interno del mondo del lavoro di una società bianca. Anche in questo la sociologia ci viene in aiuto per tirare delle conclusioni, sensate, riguardo all’inserimento, o meno, di popolazioni dalle differenti culture e morfologicamente non uguali al Paese ospitante. Il lavoro, il mantenimento personale e familiare, la buona condotta nel rispetto delle regole del nuovo Paese e un’attitudine all’adattamento, sono caratteristiche sostanziali ad un’accettazione sociologica del diverso all’interno dell’omologato.

Quasi come fosse una provocazione, vorrei concludere con un quadro molto particolare di Giuseppe Arcimboldo, più specificatamente, “Il fuoco”, del 1566:

Giuseppe Arcimboldo, Il fuoco, 1566 - da Wikipedia
Giuseppe Arcimboldo, Il fuoco, 1566 – da Wikipedia

Laddove, arde l’ardente cervello di chi pensa troppo senza concludere niente, diventa difficile stabilire cosa sia naturale, corretto e accettabile, riconoscendo la patologia patologica sociale e politica. Sarebbe un bene spegnere quel fuoco, quei fiammiferi che bruciando, bruciando, finiranno per confondere le idee di quel povero individuo avvolto dalla cenere del suo stesso cervello; ha prodotto troppi scarti e pochi consigli da seguire quindi aiutiamolo ad uscire dal suo stillicidio morale e sentimentale, aiutiamolo a spegnersi. Chi brucia lo fa per invidia, per gelosia o per incapacità ad accettare la sua stessa condizione di vita, bisogna insegnargli a stare sereno e vivere con sé, per sé ma con gli altri e per gli altri, perché soli non si va molto lontano e se finiamo i fiammiferi che ardono nel nostro cervello, oltre a non andare lontano, finiremo per arenarci nell’incapacità di spegnerci da soli e nell’impossibilità di chiedere aiuto a qualcuno che abbia dell’acqua al posto di altra cenere. Poi, se vuoi buttar cenere sul fuoco, al giorno d’oggi, ce n’è, davvero, per tutti i gusti.

Arianna Forni

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