“Cerco un centro di un centro di gravità permanente
che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente
avrei bisogno di…”
(Franco Battiato, “Centro di gravità permanente”, 1981)
La Optical Art, meglio conosciuta come Op Art, è un fenomeno nato intorno alla fine degli anni sessanta del Novecento, concentrato sul concetto di arte astratta. In effetti, non ha alcun senso logico al suo interno, serve a confondere le idee e a disturbare la mente. Appare come una sorta di BANG, onomatopeico e psichedelico, da discoteca o da assunzione di alchool e droghe. Fortunatamente, in suo favore, non porta con sé alcun effetto collaterale, se escludiamo un notevole giramento di testa, successivo all’osservazione, continuativa, di ognuna delle singole opere di cui parleremo. Poco male, resta sempre un buon neurologo e l’oculista di turno per risolvere tutti i nostri problemi di labirintite. Si consiglia la lettura ai soli consapevoli di quanto appena scritto: certi medici hanno parcelle super-expensive, meglio saperlo prima. La volontà degli artisti, esponenti della Op Art, è proprio quella di dare illusioni ottiche attraverso l’assemblamento di figure astratte che riescano a dar vida ad un movimento all’interno della loro staticità, per questo motivo, la corrente in oggetto, viene spesso avvicinata e paragonata all’arte cinetica. Il risultato di questi meccanismi, futuristici e leggermente spostati dalla consuetudine, è la creazione di una percezione instabile dello spazio attorno all’osservatore, con i conseguenti capogiri e flash ottici, a volte, poco simpatici. Non è certo una corrente tra le più ricercate e diffuse ma ha i suoi estimatori e, per onor di cronaca, anche noi vogliamo occuparcene. L’arte è arte e se esiste un movimento come la Op Art deve esserci un motivo, storico o contestuale, ad avergli dato vita. Victor Vasarley, di cui vedete un’opera in apertura, è uno dei massimi esponenti della Op Art. Nasce a Pécs, in Ungheria, nel 1936 e muore a Parigi, nel 1997; inizia ad occuparsi di Optical Art nel 1955, anno in cui riesce ad inserirsi radicalmente nel mondo degli artisti noti e quotati. Aveva una filosofia legata all’universalità dello spirito umano congiunto, in modo inscindibile, al progresso tecnologico verso cui si stava andando con sempre maggior fermezza e grande entusiasmo. La sua arte assommava queste due caratteristiche, una convivenza tra lo spirito e la voglia, estrema, di scindere sé stessi dal proprio corpo. La sensazione è comprensibilissima proprio guardando qualcosa che ti chiede di scappare via, il più velocemente possibile, per non star male, pittosto di soffermarsi e capire. Nel 1971, Vaserly, dipinge Cheyt Pyr:

Si percepisce movimento, dinamismo, una destrezza nell’utilizzo dei colori e una magia prospettica, come, del resto, in quasi tutti gli altri artisti esponenti di questa correne. Il significato? Beh è proprio su questo che ci si trova in difficoltà, pare volgersi verso un desiderio meccanico quando la pittura, per forza, non può avere niente in comune con una macchina, con la nuova tecnologia, con l’avanzamento. La pittura è pittura, può non apparire statica, può trasmettere emozioni, sentimenti, piacevolezza ma non può, e mai potrà, trasformarsi in uno schermo visivo. Questi artisti vorrebbero inventare qualcosa per rendere l’arte vicina, se non plasmata, ai tempi moderni, all’interno di essi e con essi, creare una fusione in una bellezza dinamica, parallela alla pittura a cui siamo più avvezzi, come studiosi e come osservatori. Non è possibile, è utopico e, se osservate la prossima tela, fastidioso:

Si può entrare in qualsiasi filosofia, comprendere qualsiasi stato d’animo e apprezzare qualsiasi espressione artistica ma non si può accettare che qualcosa del genere possa essere stimato intorno ai 100.000€, non è eccessivo per essere un artista, considerato famoso, ma è fuoriluogo in base al tipo di produzione.
Così come le sue “Zembre”:

Hanno un non so che di rasserenante, rispetto alle restanti tele, ma si tratta solo di uno sfondo lontano, molto lontano, soprattutto perchè affianchate a “Bora III”, di 11 anni più tarda ma che, attualmente, si accosta, a livello cromatico, in modo perfetto alle Zebre. Inizio ad avere qualche problema di vista e di stomaco.

Non è finita, perché, nonostante Vaserly sia l’ideatore, si può dire, di questa corrente, non è stato sufficiente a far capire quando fosse fastidioso e macchinoso. Si sono, di conseguenza, a scroscio, uniti una serie di altri colleghi affascinati dalla Op Art, dovevano trovare un modo di copiare quasta genialata e, senza ombra di dubbio alcuno, ci sono riusciti.
Iniziamo con Bridget Riley e la sua “Blaze 4”, il che presuppone ce ne siano altre tre in giro a creare problemi di lobotomia tra gli appassionati d’arte:

Nasce a Londra nel 1931 e, nonostante qualche sicuro problema ottico, è ancora in vita. Il suo scopo principale, nella vita, è sempre stato quello di trovare un escamotage, tra i più riusciti, per suggestionare l’occhio umano, creando impressioni visive e sensoriali multiformi e, ancora una volta, fastidiose. Queste metodologie non passavano inosservate tanto da esporre, insieme al già detto Vaserly, a New York durante una mostra, per l’appunto, di Op Art. Un successone, dipende in quanti saranno usciti sulle loro gambe e quanti altri avranno dovuto prendere l’ambulanza ma l’importante è l’affluenza, la vendita dei biglietti e l’acquisto delle opere, i casi di labirintite acuta non contano, anzi, rafforzano il concetto di Op Art come disturbo ottico e mentale. Probabilmente, avevano inventato una sfida, tra di loro, sul conteggio degli svenimenti a cui assistevano all’interno di una sala piuttosto di un’altra. Carina come immagine, quasi comica. Detto questo, anche la Riley, pare avere un pubblico di affezionati, a lei e al neurologo.
Un altro esempio è l’artista Richard Anuszkiewicz, con un cognome del genere non avrebbe potuto far altro che prendere parte a questo movimento, sono certa possa diventare pronunciabile solo dopo aver dato uno sguardo a questo:

Ha trasformato degli innocui fiorellini in un massacro visivo. Perché, diamine? Quello che non mi è chiaro, sicuramente per mancanza di Op competenza e, certamente, per carenza di denaro per andare in continuazione dall’oculista a cambiare lenti agli occhiali, è perché si siano, con coscienza e consapevolezza, fossilizzati sul disturbo visivo e non sul piacere, come fanno tutti gli artisti del mondo, da secoli. Una stanza coperta di tele come queste può trasformarsi in un vero e proprio incubo. Qualcuno deve pur avergli detto qualcosa, non credo abbiano incontrato solo pazzi isterici emersi dai film di Sir Alfred Joseph Hitchcock.
Non abbiamo ancora finito. Tenetevi forte e fate uno sforzo, c’è ancora un autore degno di nota, ci tengo, particolarmente, che possiate osservare due delle sue opere meglio riuscite:

Con questa raggiungiamo i massimi livelli di inquietudine sensoriale e nasuea insistente e persistente. Vi invito ad osservarla per più di trenta secondi di fila, almeno potrete accorgervi del cerchio al suo interno, sì, è proprio lui a farvi venire l’emicrania ma, è sempre lui, a dare credibilità a una tela di questo genere, altrimenti potrebbe essere un gessato riuscito male. Da notare, e non dimenticare, il fatto che Yvaral fosse figlio di Vaserly, non credo avrebbe potuto fare altrimenti se non seguire le orme del padre, anche perché sarà cresciuto in mezzo ad un condizionamento mentale e ottico tra i più incisivi, il suo cristallino, di certo, era in grado di visualizzare solo queste sconcertanti immagini da dissociati mentali. Tale padre tale figlio; la mela non casca mai lontano dalla pianta; non dire gatto se non ce l’hai nel sacco, no, forse questo non è calzante.
In conclusione, sempre Jean Pierre Yvaral, da non dimenticare, resta figlio di Vaserly, dà vita a qualcosa di assurdo, in termini e in produzione:

Distrugge una Marlyn Monroe tanto bella, affascinante e pura in vita, da essere ridotta a un mucchio di colori a caso, da parte di Andy Warhol, e in questo bianco e nero inguardabile, da parte di Yvaral. Ma perché? Pare legittimo chiederselo ma non possiamo, purtroppo, avere risposta alcuna, è morto anche lui, nel 2002. D’altra parte chi riesce a sopportare la vista di tutto questo non può essere anche longevo.
Credo che l’arte, alle volte, corra il rischio di sbroccare, di voler fare di più di ciò che le è concesso. Abbiamo già visto quanti grandi artisti, vivi o morti, ci siano al mondo. Abbiamo constatato il candido sentimento di alcune opere e l’agghiacciante freddezza di altre. Sappiamo dell’esistenza di contemporanei difficili, irriguardosi, sprezzanti e di altri dolci, delicati, sileziosi ma incisivi. Conosciamo l’aspetto di malessere, intimo e psicologico, della maggior parte degli artisti, qualsiasi sia la branca di appartenenza. Siamo consci e consapevoli delle diversità diversificate di ogni arte ma, temo, malgrado tutto, di non essere in grado di interagire con questo filone Op. Posso capirne, parzialmente, il desiderio di avvicinarsi alla tecnologia rendendo tecnologica una tela piatta, dandole un movimento proprio, quanto impersonale ma, niente, non posso capire il desiderio di creare squilibrio in chi osserva.
La ricerca di attenzione è la prima cosa che provano a catturare i bambini. Fin dalla nascita sono capaci di escogitare i metodi più assurdi pur di avvicinare la mamma e il papà alle loro esigenze. Che sia lo stesso meccanismo anche in questo caso? Forse questi autori avevano altro da dirci. Il malessere che state provando ora, al termine di questa lettura e che sto provando io dopo aver, anche, scelto le opere migliori da mostrarvi, potrebbe indirizzarci verso un quesito superiore. La domanda resta una.
Quale?
Arianna Forni