“Less is More”
(Ludwig Mies van der Rohe, Aquisgrana, 1886 – Chicago, 1969, architetto e designer tedesco)
Gli anni Sessanta del Novecento sono una fucina per la nascita di nuove correnti artistiche. Ognuno possedeva un forte desiderio di distinguersi dalla massa proponendo delle novità. Gli artisti erano spinti verso l’invenzione di movimenti longevi, in grado di proseguire e crescere nel tempo. Molte di queste correnti sono nate, vissute e morte in brevissimo tempo, altre, invece, come l’arte minimale, hanno avuto vita più lunga, giungendo a noi, viste e riviste, ma pur sempre esistenti, resistenti. Ludwig Mies van des Rohe è uno dei primi a dedicarsi a questo genere di arte, può essere avvicinato ad altri artisti del suo stesso periodo, Le Corbusier, Walter Gropius, Frank Lloyd Wright, tutti architetti con una mission nel sangue: togliere i dettagli per lasciare l’essenziale, trasformare l’architettura e il paesaggio urbano in arte anziché in mera funzionalità. Ciò che vede e cerca di fare van der Rohe è togliere ancora qualcosa, lasciando spazio allo spazio, rendendo visibile solo l’utile, l’utilizzabile, il necessario, facendo sparire qualsiasi suppellettile. Con lui nasce una sorta di encefalogramma piatto del design, di esterni e di interni. Ad esempio:
Il minimalismo è l’estremizzazione del processo di riduzione della realtà, portando al limite la presenza di oggetti, di colori, di bellezze architettoniche e d’arredamento per lasciare l’essenza dell’essenziale. Tutto questo, in primo luogo, serviva a ridurre i costi di produzione aumentando il ricavato. L’ottima pubblicizzazione del nuovo concetto ha dato vita ad un meccanismo in crescita esponenziale, ancora oggi, infatti, il minimal fa tendenza, il problema è che pochi, pochissimi, conoscono il background con cui è nato questo movimento, questo manifesto contro gli sprechi, contro il consumismo, contro gli eccessi pomposi dell’epoca precedente. Non è un caso che nasca e si sviluppi intorno agli anni Sessanta. Ormai la Seconda Guerra Mondiale era un ricordo, non troppo vago ma pur sempre un ricordo, l’economia era in crescita senza aver ancora denotato un vero e proprio boom espolosivo e bisognava trovare il modo di fare moda con il poco che si possedeva. Bisognava monetizzare per tornare in auge. La dimostrazione di tutto questo si può riscontrare nell’inversione di tendenza degli anni Ottanta e Novanta, in cui, paradossalmente, si è tornati ad un arredamento e ad un’arte più barocca che moderna, nel senso minimal del termine, per poi voltare le spalle, nuovamente, ai suppellettili tornando, nostro malgrado, al minimalismo, il più piatto possibile. Nascono, così, nuovi designer d’interni che vendono a centinaia di migliaia di euro arredamenti privi di carattere, privi di qualsiasi cosa ma, con grande plauso generale, di assoluta tendenza da star. Non che sia un’amante delle carte da parati, degli arazzi colorati e delle statuine di ceramica sulle mensole di casa; assolutamente no. Credo che ci sia un limite e un metro di paragone, un compromesso insomma, tra il troppo e il niente. Le estremizzazioni, però, sono il solo modo di crearsi un seguito di seguaci, sia critici che innamorati persi, non ha molta importanza, ciò che conta sono i numeri. I minimalisti, dagli anni Sessanta ad oggi, continuano a fare numeri, la differenza sta solo nel motivo per cui crano massa. Negli anni Sessanta la stregua di amanti del minimalismo aveva una logica ragione d’essere: il risparmio. Nel 2018 gli innumerevoli affezionati, con case total white, sono disposti a spendere dieci volte tanto per una poltrona in plastica trasparente, dura e scomoda, purché sia minimal, piuttosto di spendere un decimo per la stessa poltrona, morbida e accogliente. Si ritorna al concetto di psicosi generale creata da un marketing specifico che miri al condizionamento e non alla scelta personale, di gusto.

Occhio a non cadere, occhio a non prendere qualche chilo, reggerà? Occhio a non sedersi su qualche scalino. Questa scala mi inquieta, parecchio, eppure è minimal, sono certa, ci sia la corsa all’oro per averla. Quel che è ancora più absurd è il fatto che il design d’interni, moderno, diciamo da van der Rohe in poi, sia considerato arte vera e propria, quindi, possedere questa scala oppure il camino che vi mostrerò tra poco e quest’altro salotto, non solo è di gran moda ma pare sia, esattamente, la stessa cosa di avere appeso in casa un Renoir. Sento stridere le unghie sulla lavagna.
“Less is more”, ok, sono certa che negli anni Sessanta aveva davvero un senso, non solo estetico, anzi, sicuramente, non estetico ma, bensì, di risparmio, less era come dire cheap: “risparmia per avere di più”. Aveva un significato molto più profondo di quanto non possano avere questi arredamenti minimal, appena visti. Quel che è ancora più absurd è l’arte minimalista, quella da esposizione nelle gallerie, quella da quotazioni stratosferiche. Ecco, l’arte minimalista è ancora più scioccante del design d’interni. Ora vi mostro perché.
Prendiamo l’esempio più lampante, uno degli ideatori dell’arte minimalista americana, Carle Andre:

Nasce nel 1935 a Quincy, negli Stati Uniti. Trascorre tutta la sua esistenza alla ricerca della perfezione del concetto di arte minimalista. Accosta solo forme geometriche semplici, crea opere prive di sentimentalismo ed emozione. Non trasmette assolutamente niente, se non mera piattezza, sterilità e pulizia d’immagine. Leggermente più movimentata, forse, è la sua opera, che trovate in apertura, potrebbe sembrare una piccola foresta di cubi, quasi un labirinto a cielo aperto, uno zig-zag tra i più semplici pensieri umani. Come potete notare è tutto un movimento di sguardi uniformi e regolamentati da un preciso posizionamento degli elementi, siano essi una scacchiera o pezzi geometrici, apparentemente, buttati là come fossero dadi. Un altro esempio può essere una sua opera del 1983:

Questa volta addirittura bianca, laddove il bianco è totale assenza di qualsiasi tipo di coinvolgimento emotivo e relazionale con l’opera, con l’artista e, maggiormente, con il pubblico. Appare come un niente in mezzo al niente. Un bambino potrebbe utilizzare la scultura come gioco, una sorta di campana moderna senza numeri né lettere. Perplessa è dire poco, eppure hanno, per qualcuno, un grande fascino, non so di cosa e non conosco il perché ma attraggono.
Un altro artista molto importante, del genere minimalista, è un contemporaneo di Andre, Donald Judd:

Nato nel 1928 e morto nel 1994, negli Stati Uniti, si è, fin dall’inizio della sua carriera, accostato al nuovo movimento minimal, dando vita ad una serie infinita di mensole gigantesche, stile IKEA, dai vari colori ma con uno scopo non ben definito.
In un appartamento, probabilmente, potrebbero servire per riporre dei libri, degli oggetti, ops no, degli oggetti no perché non saremmo minimal se avessimo inutili gingillerie per la casa. No, servono solamente ad essere osservate così, nude e crude, è già tanto che siano colorate. Accontentarsi è la prima regola per stare al mondo senza troppe pretese né quesiti inopportuni.
Inizialmente mi ero convinta che tutto ciò, vicino al concetto di minimal, fosse maschile. D’altra parte sono gli uomini ad aver bisogno di meno cose possibili, meno cose da mettere in ordine, meno cose da pulire, meno di tutto, meno abiti, meno scarpe, meno, meno e ancora meno. Invece, anche in questo caso, mi sono sbagliata. Mona Hatoum ne è la dimostrazione: il minimal può essere anche femminile e fare una grande tendenza quasi fashion:

La Hatoum nasce a Beirut, nel 1952 e si accosta perfettamente al manifesto minimalista. “Impenetrable” è una delle sue opere più importanti ed è anche una delle poche ad avere un significato, intrinseco, legato alla sfera sessuale, di prostrazione femminile alla brutalità dell’uomo, nonché all’essenza impenetrabile della mente di una donna rispetto alla restante parte del mondo. Tuto questo possiamo carpirlo solo dal titolo, quindi la rilevanza dell’opera sta nella parolina che la descrive, il resto non conta. Una ambivalenza forte espressa in modo veramente scarno. Per non parlare della sua poltrona a forma di grattugia per il parmigiano:

Adatta ad un fachiro moderno oppure ad un autolesionista alla ricerca dell’estasi, attraverso la scarnificazione consapevole. Sono davvero commossa, non so voi.
L’arte minimal e il minimalismo, in senso generale, sta coinvolgendo le più svariate sfere del fashion e della tecnologia moderna. Tutto comporta una riduzione d’insieme. Ciò che è piccolo, piatto, liscio, privo di angoli, senza ammennicoli è considerato bello e, conseguentemente, appetibile. Ora, però, prima di concludere, vorrei farvi vedere qualcosa che, nonostante sia considerata minimal, di minimal ha ben poco. La sua presentazione è avvenuta, nel 2018, a Ginevra:

D’altra parte è minimal, se stiamo a guardare per il sottile, però non ditemi che assomiglia a tutto il resto che sono riuscita a mostrarvi in questo articolo. Non camminerei sulla scala sospesa nel vuoto, non mi siederei nel salotto total white, non comprerei le opere di Andre, Judd e della Hatoum ma questa Renault, beh, almeno un giretto credo che non me lo lascerei sfuggire.
Tutto questo per giungere a un concetto di fondo molto importante. Ogni manifesto, ogni corrente artistica, segue le necessità e i sentimenti generati dal suo periodo storico di appartenenza. Ogni artista cerca di dirci qualcosa, di più o meno chiaro, che si confà, alla perfezione, al suo contesto sociale. Poi, ci sono i frustrati, i disillusi, i SuperUomini, gli egocentrici, i “sono un genio e quindi devono saperlo tutti”, i “non so che fare nella vita, faccio l’artista o il designer d’interni”, che poi è la stessa cosa. Io non criticherei mai l’arte, perché l’uomo vive e si nutre di arte, vive di emozioni, di sensazioni e di necessità. Ognuno di noi si esprime in maniera diversa, c’è chi butta tutto su una tela, chi scrive, chi legge, chi produce poesia, chi sculture, chi viaggia attorno al mondo, chi fa volontariato, chi cucina, chi fa sport, per esprimersi vale tutto, non ci sono regole ma esiste il buon gusto, pur non essendo controllato da nessuna legge esiste davvero e andrebbe, quanto meno, preso in considerazione.
Arianna Forni