“Non c’è nulla di così umiliante come vedere gli sciocchi riuscire nelle imprese in cui noi siamo falliti.”

(Gustave Flaubert, “L’educazione Sentimentale”, 1869)

Il nostro percorso artistico, svolto fino a questo momento, ha visto svariate tipologie di correnti e manifesti legati, più o meno strettamente, a contesti storici ben precisi, rilevanti dal punto di vista economico, politico e sentimentale, delle popolazioni interessate. Resta il fatto che, molti artisti, prediligano, e continueranno a prediligere, l’espressione emozionale di un pensiero personale, comune, per elargire consigli e lanciare, nell’aria, coriandoli di spensieratezza, gioia e allegria. L’arte è anche questo, soprattutto questo, l’arte è bellezza, una bellezza pura concessa agli uomini gentili, che osservano, e prodotta da altrettanti uomini gentili, caparbi conoscitori delle tecniche utilizzate. Un quadro deve trasportare un sentimento, deve essere capace di parlare al suo pubblico come se fosse lo stesso artista a farlo. Un quadro deve dirci tutto di sé e del suo ideatore, deve comunicare. La comunicazione, che avviene attraverso una tela, è, sì, non verbale ma è, tuttavia, altamente verbale nel momento in cui si inizia a parlarne, a discuterne, cercando una risposta alla domanda principale: “Cosa sta cercando di dirci?” Da questo punto di inizio si riesce, con consapevolezza, a dare vita ad un meccanismo stupendo di convivenza e contraddizione tra le emozioni delle persone. Siamo tutti diversi, tutti con pragmatiche convinzioni e, altrettante, irrazionali reazioni. I quadri devono tirarci fuori tutto ciò che siamo, devono metterci in crisi, lanciare confusione nelle nostre menti e poi risolvere le questioni di stima, verso sé stessi, facendoci credere di aver trovato la risposta giusta. La cosa più entusiasmante sta proprio nella risposta. Non esiste un enunciato giusto o sbagliato, parlando di arte, non esiste uno scioglimento esatto del pensiero di un artista, a meno che non sia in vita e non voglia raccontarci dettagliatamente ogni singola pennellata, sarebbe limitante nell’incredibile percorso iconografico di una mostra, di una galleria, alla scoperta, personale, di sé e del mondo, senza guida, solo con la grazia dell’abitudine, dell’assuefazione all’arte stessa. Ognuno deve avere l’opportunità di decidere cosa guardare e come guardarlo. Ognuno deve trarre la sua risposta, quella che solo la sua coscienza voglia far emergere. In questo senso trovo sbagliato che gli artisti spieghino, nel dettaglio, positivo o negativo, ogni loro opera, potrebbero, e dovrebbero, limitarsi a creare una linea di produzione che segua un filone unico e univoco, con le normali varianti del caso, dovute alla crescita personale e alla crescita artistica. La risposta, però, è del pubblico. Chi compra deve avere una sua lettura dell’opera acquistata, deve potersi mettere in casa qualcosa di cui lui, solo, possa essere convinto di poterne parlare con cognizione di causa, personale e, quindi, unica. Si tratta, prettamente, dell’elevazione del pubblico a critico, non che tutti possano assurgersi a professori d’arte ma, tutti, devono avere la convinzione di potersi esprimere, di poter scegliere cosa prediligere nell’infinità di arti visive da cui siamo circondati, fin dagli albori dei tempi. Il discorso è articolato e complesso proprio per la raffinatezza con cui avviene il meccanismo di condivizione di un’opera. I galleristi lo sanno bene, sanno distribuire il percorso iconografico come se fosse un viaggio sensoriale, riescono a concedere la possibilità di soffermarsi laddove l’anima, di un singolo individuo, sceglie di fermarsi. Non è un caso, ognuno di noi è attratto da dettagli differenti, sia nell’arte che nella vita. C’è chi adora le scarpe con il tacco e chi le sneakers, chi ama le bionde e chi le more, chi beve vino e chi birra, chi guarda i film solo al cinema e chi preferisce il divano di casa sua. Ognuno decide per sé in maniera personale sapendo che qualcuno potrà, sicuramente, pensarla come lui ma, accettando di buon grado, anche chi la pensa in modo diametralmente opposto. Si tratta di un semplice, ma macchinoso, strumento di targettizzazione, utile a qualsiasi tipo di marketing, sia che si parli di arte, sia che si parli di moda, sia che si parli di tecnologia. Un gruppo andrà a destra e l’altro a sinistra e qualcuno proseguirà dritto, senza soste, senza mete, cercando di evitare un inevitabile condizionamento. L’arte è il primo condizionamento a cui l’uomo è stato sottoposto, è il più bello e il meno dannoso.

In apertura a questo pezzo trovate un’opera di Umberto Boccioni, “Donna in giardino”, del 1910. Appare molto diversa rispetto alle sue opere a cui siamo abituati, al contempo, però, è illuminante, sensibile, materna. Porta con sé gioia di vivere e desiderio di andare avanti, verso un futuro che ancora non conosciamo. La mamma, insieme alla bambina, sono il simbolo della saggezza di ieri trasmessa al prossimo domani, sono l’educazione rispetto all’essere infantile, sono la stabilità di una famiglia che cresce, sono un simbolo di 108 anni fa, nel quadro di Boccioni, sono lo stesso simbolo della nascita del mondo e del suo, inarrestabile, incedere continuo, continuativo. Io vedo questo, ma voi? Ognuno è libero di scegliere e non credo sia né giusto né democratico imporre una lettura univoca di un’opera d’arte. Parla da sola e noi la lasciamo parlare.

Lo stesso vale per “The Scale of Love”, di Jean-Antoine Watteau, dipinto tra il 1715 e il 1718:

Contact: picture.library@nationalgallery.co.uk  Copyright ?The National Gallery, London
“The Scale of Love”, Jean-Antoine Watteau, 1715-18 – Source: http://www.nationalgalleryimages.co.uk/

Un’immagine di dolcezza, tenerezza e partecipazione. Un momento campestre per persone abbienti, i vestiti sono la dimostrazione del grado sociale di appartenenza dei due protagonisti. Lei regge lo spartito mentre lui sbircia, delicatamente, le note da strimpellare sulla sua chitarra. Note d’amore, note soavi che riecheggiano anche nella nostra mente. Ognuno avrà, in testa, una sua canzano d’amore, una musicalità familiare ad un momento simile a questo, vissuto con una persona cara, un innamorato, forse o, forse, solo qualcuno a cui volere molto bene. Una chitarra che suona è l’emblema stesso della fragilità umana di fronte ad una nota udita nell’aria, ovunque ci si trovi. La musica è evocativa, questo quadro, di Watteau, vuole essere evocativo allo stesso modo, vuole lasciarci perplessi, attoniti, incollati alla tela, sempre più vicini, alla ricerca di quella canzone d’amore, suonata in un bosco, dove le coppiette usavano passeggiare mano nella mano. Sullo sfondo, un po’ sfocate, vediamo altre persone, uomini e donne in atteggiamenti amorosi, i protagonisti non fanno che avallare la tesi legata a quel bosco, assurgendo un luogo, immerso nella natura, a tempio sentimentale. I dettagli, con cui Watteau, dipinge quest’opera, sono impressionanti, di un’impressione armoniosa, la morbidezza dell’abito della donna, il mantello appoggiato a terra, il fiocco rosso tra i capelli e le pagine dello spartito. Si riesce, pergiunta, ad udire il rumore della carta tra le sue dita. La posizione dell’uomo è molto naturale, comodamente seduto su di una pietra, forse, su di un tronco, forse, accomodato in modo da restare, leggermente, più alto rispetto a lei e riuscire a leggere le note, una dopo l’altra. “The Scale of Love” è l’antica “Heaven” di Bryan Adams, del 1984

“Baby you’re all that I want

When you’re lyin’ here in my arms

I’m findin’ it hard to believe

We’re in heaven

And love is all that I need

And I found it there in your heart

It isn’t too hard to see

We’re in heaven”

Lo stesso vale per Michelangelo Cerquozzi, intorno al 1650 dipinge queste “Figure in un viale”:

Michelangelo Cerquozzi, Figure in un viale, 1650 ca
Michelangelo Cerquozzi, Figure in un viale, 1650 ca

Non stiamo parlando d’amore, né familiare né interpersonale ma di normalità, come può essere una parreggiata lungo un viale alberato. Una figura, in primo piano, risale un leggero pendio con il suo cane, a destra troviamo una dama in atteggiamento giocoso ma non vediamo chi sia l’artefice di tale divertimento, si trova fuori dalla tela ed è, anche questo, un ottimo escamotage per suggerire fantasia nella lettura dell’opera stessa. Due uomini, dai grandi cappelli da moschettiere, dialogano tra di loro, in una conversazione sconosciuta ma, apparentemente, amichevole. Al centro del viale troviamo svariati individui, chi seduto sul bordo di un pozzo di cemento, chi, un altro moschettiere in stivali di morbida pelle e mantello, in compagnia della propria dama in rosso e chi, infine, intento a giocare con il suo cucciolo, in tenuta molto semplice. La dimostrazione è evidente, vuole dirci un’ovvietà, non ovvia nel Seicento e non ancora ovvia nemmeno oggi, differenti classi sociali possono convivere, amabilmente, lungo quel viale aperto a tutti, in un luogo neutro dove vige la pace e il rispetto. La penombra indica un orario tardo pomeridiano, il sole riesce ad infiltrarsi tra i rami dei grandi alberi, si può ancora rimanere all’aperto prima di tornare alle faccende di casa, prima di tornare a corte, prima di riprendere, ognuno, la propria vita. Lo facciamo anche noi, nel 2018, andiamo al parco a passeggiare con i bambini, a giocare con i cani, a chiacchierare con gli amici o con il nostro o la nostra amata. Siamo, ancora, dame e cavalieri del Seicento, del Settecento; vorremmo che fosse così ma, purtroppo, non lo è, siamo solo un nugolo di personaggi bravissimi a scimmiottare l’educazione, senza conoscerne appieno il significato. Parlo per tutti ma non parlo a tutti, ovviamente.

Sarebbe bello tornare indietro nel tempo, anche solo per un momento, e sedersi vicino a questi artisti, ascoltare i loro pensieri senza chiedere niente, senza forzare l’apertura del loro cuore, solo osservando dall’esterno il loro animo gentile. Ogni pennellata ha un senso e, forse, proprio l’ordine con cui vengono date ha ancora più senso. Noi, però, vediamo l’opera nella sua completezza, nella sua conclusione, nel suo immenso insieme rasserenante. Che bello. Sarebbe ancora più bello avere un manuale di cavalleria da far studiare ai bambini già alle elementari, probabilmente, sarebbe il solo modo per far crescere uomini migliori, donne più delicate e meno inclini alla paura, meno disilluse e più innamorate. Sarebbe bello ma indietro non si torna. Andiamo avanti sapendo, con certezza, che un divenire catartico distruggerebbe il mondo, un divenire plasmato sulla gentilezza accrescerebbe le possibilità di essere, ancora, graditi ospiti di questo mondo affabile.

Arianna Forni

Francesco Ubertini detto il Bacchiacca, Dama con gatto, 1540 ca - da Finestresullarte
Francesco Ubertini detto il Bacchiacca, Dama con gatto, 1540 ca – da Finestresullarte

 

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