“L’uomo gioca solo quando è un uomo nel pieno senso della parola, ed è completamente uomo solo quando gioca.”
(Friedrich Schiller)
Il gioco è la presa di coscienza più importante nella vita di un singolo individuo. Il gioco regala momenti di gioia, di spensieratezza e di consapevolezza. Giocando si impara, già. Si apprende sbagliando tanto quanto si può apprendere vincendo, ciò che, maggiormente, insegna, però, è l’errore, la caduta, sbucciarsi le ginocchia e vedere il proprio sangue sul pavimento. Le lacrime, dei bambini, sono gli stress e il nervosismo degli adulti, il risultato è lo stesso, entrambi hanno imparato qualcosa, hanno preso, davvero, coscienza dei propri limiti o dei propri sbagli. La spensieratezza va di pari passo con il gioco, ma non deve eludere la cognizione di sé e del mondo che ci ruota attorno. Gli artisti sono dei maghi nel gioco spensierato, eppure trasmettono qualcosa di grande, di molto concreto. Fanno dell’opera il capolavoro del loro cosmo interiore, rendendolo pubblico, regalando emozioni e sensazioni, non sempre positive ma, pur sempre, accrescitive del proprio ego, del proprio essere. L’essenziale è saper distinguere il gioco spensierato dal gioco regolamentato. Saper vivere una vita giocosa significa affrontare qualsiasi situazione, lavorativa, familiare, amicale, con gioia, allegria e, altrettanta, ambizione. Il connubio tra i propri impegni quotidiani e una risata risulta essere il modo migliore per affrontare il cammino dell’esistenza, limitando le proprie ansie a quei momenti dove, effettivamente, risulterebbe impossibile evitarle. Prestando attenzione a non utilizzare la risata come mezzo di difesa, di scherno. La risata deve essere positiva e propositiva, per chi ride e chi osserva. In fin dei conti, però, siamo tutti degli stressati cronici, lamentosi, a volte anche noiosi. Tanti lo fanno per darsi un tono, altri, invece, sono così di carattere, cambiare un adulto è impossibile, in troppi ci hanno provato senza ottenere nulla se non crearsi ulteriori tensioni, fisiche e mentali. Schiller, nato nel 1759 e morto nel 1805, è un esempio molto importante per spiegare l’aspetto della spensieratezza proprio perché lui, al contrario, non ha avuto la possibilità di trascorrere una vita gioiosa e giocosa. Si crea, quindi, un paragone, associativo e dissociativo, tra le imposizioni, violente e innegabilmente faticose da sopportare, e le decisioni personali, delicate e fortemente desiderate. Il padre aveva ricoperto un ruolo considerato di bassissimo livello all’interno dell’esercito, era chirurgo militare, alla stregua del barbiere e sottoposto al cuoco, non aveva mai ricavato grandi soddisfazioni dal suo lavoro, le umiliazioni subite lo avevano reso inflessibile nei confronti del figlio, sperava, per lui, di ottenere qualcosa di più prestigioso. Iniziò, fin da piccolo a studiare latino, la famiglia aveva tutti i buoni propositi per metterlo nelle migliori condizioni possibili per affrontare il mondo. Seguì un’educazione luterana, la religione della madre. Gli fu di notevole ispirazione quando, nel corso degli studi di medicina, decise di approfondire la dottrina psicologica, filosofica e psichiatrica. Il contesto illuministico, che andava delineandosi, lo poneva nella condizione di discostarsi dalla rigidità del periodo precedente. Iniziava a sentire di potersi esprimere secondo le sue inclinazioni. Era felice. Le cose non sono mai quello che sembrano e, infatti, la condizione familiare subì un drastico cambiamento. La loro stabilità economica dipendeva, esclusivamente, dal Duca, il quale aveva costruito, a Stoccarda, il Palazzo di Solitude, assegnato alla custodia del padre di Friedrich. Inizialmente, avrebbe voluto lasciare il figlio con la madre, in modo da permettergli di continuare gli studi ma il Duca decise di fare una ulteriore variazione, all’interno del Palazzo, trasformandolo in una vera e propria scuola militare alla quale, il povero filosofo, dovette prendere parte, nel suo totale disappunto. Tutto questo lo mise in una delle condizioni peggiori per il suo debole e fragile carattere, subì forti condizionamenti e un terribile stato di allarme continuo, il suo carattere venne contaminato da un ambiente che non gli apparteneva e verso il quale nutriva forte dissenso. Gli anni a venire furono molto condizionati dalla convivenza con altri militari più avvezzi a quelle insensate e ferree legislazioni interne. Nonostante tutto, tra il 1780 e il 1782, subì una nuova costrizione, ovvero quella di ricoprire lo stesso ruolo, precedentemente, del padre. Era, ufficialmente il medico militare. Niente dei buoni presupposti per la crescita di Friedrich avevano raggiunto un buon margine di compimento. Era cresciuto un infelice, costretto a subire le angherie e le manipolazioni di chi reggeva il gioco economico, non avrebbe potuto fare altrimenti. Solo nel 1790 riuscì a sposarsi, le cose iniziavano a prendere una piega migliore e, finalmente, avrebbe potuto dedicarsi alle sue vocazioni, filosofiche, più intime. Tra il 1800 e il 1801 scrisse “Maria Stuart” e “La Pulzella d’Orléans”, nel 1804 “Gugliemo Tell”, e via dicendo. Questa grande e rapida produzione fu il risultato di anni di imposizioni, senza mai potersi liberare da quel peso sullo stomaco, costretto a vivere una vita che non gli sarebbe mai appartenuta. La sua filosofia, proprio per questa ragione, si basa, in totale consapevolezza e concretezza, nell’impalpabilità della libertà umana, sempre spinta e condotta, a forza, verso direzioni utili ai potenti e non a sé stessi. Schiller, appunto, non ha mai percepito l’essenza dell’individuo in quanto tale ma, piuttosto, l’individuo come mezzo attraverso il quale, chi davvero regge il gioco, potesse ottenere dei servigi e dei servizi. Si tratta del sublime, intimo, sentimento, di dissociazione verso la concretezza quotidiana che tenta, anima e corpo, di opporsi ad un destino già scritto. Grazie a tutte queste emozioni, radicali e radicate nel suo cuore, tenta di formulare una visione in cui il gioco diviene il centro della vita dell’uomo, nella consapevolezza piena di ciò che è bello, è bene, è buono e di ciò che è brutto, è male, è cattivo. Tornare bambini per essere uomini adulti, tornare a percepire delle sensazioni di piacevolezza per esprimere dei concetti forti e significativi, all’interno di una grama esistenza del proprio essere Io pur non potendolo mai esprimere. Nel 1785 scrisse un “Inno alla Gioia” che ebbe una enorme fortuna quando Ludwig van Beethoven la introdusse in apertura alla sua Nona Sinfonia.

Non tutto il male viene per nuocere, verrebbe da dire. Non ha avuto, sicuramente, una vita facile, agevole, o, per lo meno, non ha avuto la vita che avrebbe desiderato. Eppure, in fin dei conti, nessuno lo ricorda come medico militare, tutti lo citano come poeta, come filosofo, come studioso dell’animo umano e delle sue relazioni interpersonali. Lo ricordiamo con l’“Inno alla Gioia”, qualcosa di, estremamente, accattivante nella sua armonica bellezza, nel suo ambizioso desiderio di felicità libera.
Ultimamente sono molto affascinata dalle opere di Pier Toffoletti perché esprimono allegria, brio, voglia di vivere, capacità di discernere, proprio come questa ragazza:

Ecco, lei incarna perfettamente l’Inno alla Gioia di Schiller, lei è divertente e divertita eppure nessuno di noi sa cosa stia facendo, dove si trovi, con chi sia e se, davvero, ci sia un reale motivo per sorridere, o meno. Sorride, questo è ciò che conta.

L’Artista Toshiko Horiuchi MacAdam, nel 2013, costruì un’esposizione fatta di Reti, chiamate “Reti dei Draghi”, per la loro grandezza e la loro resistenza. Sono interamente fatte all’uncinetto, sono colorate e ricordano i materassi elastici su cui si divertono i bambini. Viene voglia di giocare. Guardandole ci si avvicina al bambino che vive, ancora, dentro di noi, nonostante si cerchi sempre di ricacciarlo in cantina perché, no, siamo adulti e certe cose non ci possono toccare. Appare così bella, proprio come questa:

Proposta all’interno di ENEL Contemporanea, nel 2013 pur non avendo niente di tecnologico da mostrare. Non ha nulla di elettrico, nessuna luce, è lucente di per sé, lucente nei suoi colori sgargianti e generatrice di energia grazie all’entusiasmo di chi la guarda e poi la tocca e si sente, davvero, un bimbo stupito, catapultato al Luna Park, per la prima volta. Credo che se Schiller potesse vedere queste opere sarebbe ancora più sicuro di aver formulato una giusta ipotesi sul collegamento tra uomo e gioco. La spensieratezza dovrebbe essere l’anima del mondo.
Ogni grande impresa si fonda su un sogno di un singolo individuo. Un sogno prima flebile, poi più nitido, fino a diventare concreto nella convinzione, generale e, in esponenziale, ampliamento, della credibilità e della forza di quel sogno primordiale.
Torniamo a giocare tutti insieme, con noi stessi e con gli altri. Dal gioco, dal divertimento, dalle passioni, dalla bellezza può solo nascere altra bellezza, altri stimoli, altre imprese, sempre più grandi, sempre più tangibili. Io credo nei sogni, credo nei sogni realizzabili, non credo nei Draghi, anche se, guardando le opere di Toshiko, potrei, quasi, riuscire ad immaginarmi un draghetto sdraiato su quell’enorme e morbida amaca, con la coda a penzoloni e la bavetta, da sonno, sul muso rilassato.
Forse, un giorno, saremo tutti capaci di vedere la stessa cosa.
Arianna Forni