“To be or not to be […]”, una domanda retorica, una domanda esistenziale, una domanda che ci capita di porci e, altrettanto, di risponderci. Siamo, esistiamo, viviamo e cerchiamo di farlo al meglio delle nostre possibilità, delle nostre capacità. Lo facciamo secondo un metodo, ormai, schematizzato dallo scorrere degli anni, dalle abitudini familiari, dagli studi effettuati, dal nostro lavoro e, perché no, anche dal nostro carattere. Siamo umani e umanamente ci prodighiamo per il nostro meglio e per offrire il meglio a chi ci sta accanto ma, in fin dei conti: “Essere o non essere?”. Non è una domanda con una soluzione, così, ovvia come potrebbe sembrare, l’essere è un’essenza, la stessa essenza deve convivere con il suo mondo e le sue regole, le regole fatte da altri, le imposizioni socialmente accettabili e la, sostanziale, capacità di adattamento di ognuno di noi. L’essere ha la possibilità di essere, sé stessa, in alcune circostanze, deve non essere in altre ed è proprio qui che scaturisce la domanda, proprio qui nasce il dubbio, proprio qui si inizia ad avere il sospetto che la propria essenza, vera, non possa essere. Beh, è un problema. Parmenide, di Elea, è il primo a concentrarsi sul concetto di essere, in quanto tale, filosofico ma concreto. Cerca, appunto, di dare una connotazione ontologica al termine stesso, provando, altresì, a visualizzarne l’essenza stessa. La sua definizione, agghiacciante, dell’essere è stata presa e ripresa centinaia di volte ma, leggendola con attenzione, non si discosta molto da una logica, effettiva, tipica dell’essenza, animata o inanimata che sia. Siamo intorno al VI sec. a.C.:

“è e non è possibile che non sia

non è ed è necessario che non sia”

Il concetto si basa sulla ragione e non sulle sensazioni, il suo enunciato nasce da una constatazione dei fatti. D’altra parte è ovvio: ciò che è, esiste, c’è, si vede e, di conseguenza, non è possibile affermare il contrario, soprattutto perché non ci troviamo ancora nel contesto dei sillogismi; allo stesso modo vale il contrario: non c’è, non si vede, non è, quindi non possiamo affermare che sia. Semplice, diretto, infallibile, concreto. Da qui si aprono chilometri di considerazioni riferite all’essere e, in modo contemporaneo, al non essere.

L'essere, secondo Parmenide, rotondo e identico in ogni sua parte simile a una sfera - da Wikipedia
L’essere, secondo Parmenide, rotondo e identico in ogni sua parte simile a una sfera – da Wikipedia

Un essere, luminescente e lunatico, potremmo dire, un essere concreto pur non essendolo, un essere dai lineamenti puliti, candidi e imprescindibili dalla sua essenza stessa. Eppure, non ci siamo ancora chiariti le idee. Insomma: “Essere o non essere?”

Mi vedo costretta, qui di seguito, a citare il monologo di Amleto. Da questo inframmezzo letterario antico vorrei riuscire a contestualizzare la nostra situazione attuale. Come spesso capita, è l’arte a darci delle risposte, dobbiamo solo saper scegliere cosa guardare, dove leggere e, soprattutto, cosa vogliamo capire:

“Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine? Morire, dormire… nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo, perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale deve farci riflettere. È questo lo scrupolo che dà alla sventura una vita così lunga. Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo, gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe darsi quietanza con un semplice stiletto? Chi porterebbe fardelli, grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa, se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte, il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti? Così la coscienza ci rende tutti codardi, e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e momento per questa ragione deviano dal loro corso e perdono il nome di azione.”

(William Shakespeare, “Amleto”, 1609)

Freud suggerisce che la causa delle esitazioni di Amleto sia un inconscio conflitto edipico, Eugène Delacroix, 1844 - da Wikipedia
Freud suggerisce che la causa delle esitazioni di Amleto sia un inconscio conflitto edipico, Eugène Delacroix, 1844 – da Wikipedia

Il dilemma è uno, inizialmente, eppure apre la porta ad un numero, in crescendo, di domande alle quali non sempre è possibile dare risposta, non lo era all’epoca, continua a non esserlo al giorno d’oggi. Anzi, oggi appare ancora più difficile perché la situazione si aggrava, nella situazione si insinuano innumerevoli vicissitudini, vicine al nostro essere e parte dell’essere altrui, che ci governa, che ci comanda, che regge le fila di questo giogo infernale. A volte potrebbe essere giusto prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine ma, ci è stato insegnato, non dobbiamo essere violenti, non vogliamo creare squilibri e mettere a disagio chicchessia, quindi, forse, nostro malgrado dovremmo soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna. Ci deve pur essere un essere in grado di mantenere equilibrio, di darci pace e porci nella condizione di massima benevolenza possibile per essere un’essenza individuale e personale inserita nel contesto, seppur, oltraggioso, all’interno del quale fischiano le armi e ci si affievolisce sotto i dardi e gli affanni. Essere, vivere, non essere, non vivere, dobbiamo trovare equilibrio. Amleto non ne aveva, lo cercava nelle sue domande esistenziali ma non sapeva trovarlo, non ne aveva la forza, noi, invece, siamo stati messi in guardia, anche da lui, potremmo sapere cosa fare ma dobbiamo stare attenti. Morire, dormire. Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo, perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire dopo, forse gli stessi di Pozzo, forse gli stessi di Vladimir, nella loro vana attesa dell’arrivo di Godot. Oppure i nostri, quegli stessi sogni che colorano le nostre notti di beatitudine, tralasciando, per un attimo, gli incubi, incombenti, che ci attanagliano anche quanto il sole, allo Zenit, ci assicura di non dover aver paura di niente. Cosa siamo noi? Siamo uomini, in carne ed ossa, che portano sulla schiena i fardelli della vita perché non abbiamo la certezza di ciò che ci capiterà post mortem, siamo esseri fatti di un’essenza concreta, a volte dolorosa ma, altresì, piacevole. Non è sempre vero ciò che dice Amleto ma è sempre vera la realtà di una vita incerta, spesso inadatta, a volte beffarda e soprattutto volubile, scostante, a termine. Tra morire e dormire non c’è molta differenza, esattamente come nel gesto di attendere, aspettare, consumarsi nel proprio stesso tempo sperando che qualcosa cambi senza fare niente per cambiare. La paura è una costante, a volte salva la vita, a volte la devasta. Bisogna trovare equilibrio e capire da che parte vogliamo sederci, se dalla parte dell’essere o da quella del non essere. Io sono, perché credo che l’essere prima o poi porti dei risultati e delle soddisfazioni, il non essere comporta quell’attesa impalpabile di qualcosa che non arriverà mai, lasciando tanto amaro in bocca quanta speranza, di un drastico mutamento, in positivo. L’attesa è una trappola, dormire è una trappola. Svegliarsi è un inizio, muoversi è un proseguimento, avanzare, beh, è un successo.

La Finestra sul Mare di Tano Festa - da Artribune
La Finestra sul Mare di Tano Festa – da Artribune

Basta aprire gli occhi e guardare al futuro con speranza, questa finestra sul mare è la dimostrazione di quanto i punti di vista siano fondamentali per affrontare la nostra quotidianità. Dovremmo avere più sicurezze provenienti dall’alto, dovremmo avere più ambizioni provenienti da dentro di noi, dovremmo avere la forza di combinare le sicurezze con le ambizioni ma viviamo in un contesto sociologico in cui manca tutto, mancano i sogni, mancano le spine dorsali forti degli uomini di una volta, manca preparazione professionale e voglia di impegnarsi, davvero. Manca l’essere e vive il non essere, nel senso che l’essere deve vedersi, come affermava Parmenide, il non essere non è, non si vede, è più facile nascondersi nel non essere che mischiarsi tra la folla dell’essere, sono troppo pochi, ci vedrebbero subito.

La spiegazione non è difficile, appare molto chiara sia in Parmenide che in Amleto: noi siamo. Essere ci permette di scegliere come comportarci, sappiamo di vivere in una società in cui si predilige il non essere, si evitano i problemi e si vive nell’ombra di qualcun altro. Avere il coraggio di essere ci apre tutte le porte di cui abbiamo bisogno, a questo punto non serve altro che scegliere la via da percorrere, evitando di farsi turlupinare da qualche approfittatore pronto a distruggere i nostri sogni, in quel caso risulterebbe difficile continuare a credere che l’Essere sia la risposta giusta rispetto al Non Essere.

Fidarsi non è mai la cosa giusta, verificare, analizzare, constatare, avere fonti certe e procedere, questa è la cosa giusta, il solo modo per Essere, a tutti gli effetti sé stessi in un mondo di inetti.

Arianna Forni

 

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