“Il bibliofilo ha con la letteratura lo stesso rapporto che il collezionista di francobolli ha con la geografia.”
(Karl Kraus, “Essere uomini è uno sbaglio”, 2012)
L’origine del collezionismo d’arte risale all’antica Grecia. Nasce in un contesto in cui il fatto di possedere opere, ritenute di valore, poneva gli individui su di un piedistallo sociale superiore rispetto alla plebe. La ricchezza era valutata in base alle proprie residenze, alle proprie dimore, e, di conseguenza, a ciò che vi era posto all’interno. Gli artisti, gli scultori, venivano chiamati, appositamente, dalle famiglie possidenti per creare qualcosa di unico, un biglietto da visita per gli ospiti e un modo per tutelarsi nei confronti degli stratagemmi con cui era, davvero, troppo facile passare da una condizione abbiente ad una di totale povertà. Il collezionismo, in questo senso, serviva a regalare un’apparenza, non era legato, esclusivamente, al culto del bello ma alla, sacrosanta, necessità di preservare sé stessi. Con il tempo le cose cambiarono. Il collezionista divenne un esteta, un vero cultore dell’arte, portando alla luce il concetto di mercato artistico, il primo contesto utile ad aprire le porte ai veri artisti che, attraverso la vendita, riuscivano a coprire le spese, della propria produzione, e, anche, a sopravvivere senza essere schiavizzati dall’infernale meccanismo delle commissioni. Alcuni musei contemporanei sono, interamente, costituiti da collezioni private del passato, a dimostrazione di quanto sia cambiato il valore di un’opera di ieri nella società di oggi. Soltanto nel Medioevo si riconobbe una drastica limitazione alle collezioni d’arte, ritenute, dalla Chiesa, contrarie ai dogmi biblici e quindi, per assunto, proibite. In questo senso, gli alti esponenti ecclesiastici fecero ritirare, dalle case dei privati, la maggioranza delle opere d’arte considerate di valore, per conservarle all’interno delle Chiese. Il meccanismo non era, prettamente, correlato ad un proibizionismo, bensì ad uno stratagemma che attirasse il maggior numero di persone possibili ad assistere alle celebrazioni, con la scusa, ancora maggiore, per fare delle offerte importanti, al fine di mantenere lo splendore delle opere in esse riposte. Il termine del periodo medievale permise ai collezionisti di ricominciare la loro raccolta di opere d’arte, abbandonando l’idea di poter recuperare quelle in possesso della Chiesa che, tutt’ora, ne conserva una parte sostanziale, e sostanziosa, della produzione, più rilevante, legata al nostro grande passato.

I Musei Vaticani ne sono una grande vetrina. Roma è, effettivamente, un museo a cielo aperto ma la maggioranza delle opere sono, tutt’ora, conservate all’interno del caveau vaticano, limitandone la possibilità di esposizione a rare, rarissime, occasioni. Per lungo tempo, possiamo dire fino al XIX e XX secolo, l’arte fu un patrimonio, discretamente, controllato dall’andamento dei desideri ecclesiastici e dei grandi ereditieri che, mai, si sarebbero liberati delle opere conservate all’interno delle loro collezioni private, tramandate da generazione in generazione. Con il XX secolo le cose cambiarono in modo radicale e il collezionismo divenne un vero e proprio hobby per molti appassionati, benestanti, galleristi e curiosi. L’ambiente iniziò a riempirsi delle più svariate figure professionali, ampliando sia il giro di lavoro per gli artisti stessi, sia la possibilità di lavorare nel campo dell’arte, pur non avendo la minima capacità estetica di produzione. I curatori delle mostre e delle aste, ad esempio, sono dei veri e propri maghi dell’ipnosi, capacità di presentare le opere, in vendita, tramite un meccanismo, universale, accattivante tanto quanto convincente, nei confronti di una platea, in elegante e silenzioso delirio, disposta a scucire cifre inenarrabili pur di accaparrarsi quel quadro. Non è un caso che “Merda d’artista”, del 1961, opera discretamente famosa, forse per lo schifo che porta con sé, di Piero Manzoni, sia stata venduta a 275 mila euro alla casa milanese Il Ponte, durante un’asta d’arte contemporanea; vi risparmio la scritta sull’etichetta della scatoletta di latta, per chi volesse può osservarla nell’immagine sottostante.

Preferisco non esprimermi a riguardo, trovo, però, aberrante, che qualcuno abbia voluto dare un tale valore a questo scempio. Ecco che, senza colpo ferire, compare, palese, il senso del collezionismo moderno: avere per avere, avere per essere, avere per dimostrare di possedere. Cosa? Qualcuno, sicuramente, acquista pezzi d’arte di effettivo valore, lo fa per investimento ma anche per cultura personale e ambizione, desiderio di avvicinarsi alla mentalità, ai sentimenti dei grandi artisti artefici di grandi opere. Come appare ovvio non sto parlando di Piero Manzoni. La passione per il collezionismo è, anche e soprattutto, uno status sociale verso cui ci si è diretti, con il passare degli anni, grazie ad una esaltazione della cultura artistica legata ad ambienti inebrianti ed inebriati di un profumo, estremamente, snob. Partecipare ad un’asta di Christie’s prevede che si posseggano sufficienti assegni, coperti, per alzare la mano almeno un paio di volte rendendosi partecipi e protagonisti di quella vetrina sociale dal business interattivo.

In questo caso, “Les femmes d’Alger (Version O)” di Pablo Picasso, è stata battuta a 179,4 milioni di dollari, spodestando altre opere vendute a cifre da capogiro come, ad esempio, “L’Homme au doigt”, del 1947, scultura in bronzo di Alberto Giacometti, battuta, nello stesso anno, 2015, a 141,3 milioni di dollari.

Appare chiaro che un ruolo, fondamentale, in tutto questo sia giocato, anche, dal battitore d’asta e non solo dal curatore ma, aggiungerei, la parte più importante è fatta dalla platea, la disposizione delle sedute viene predisposta in modo molto strategico, per influenzare l’andamento delle palette e quindi la salita delle offerte. Attualmente, una sola giornata d’asta porta guadagni stratosferici proprio grazie a questo meccanismo di investimento e di sfida tra un collezionista e l’altro. Non importa quanto spendono e per cosa, l’importante è farsi notare, farsi riconoscere e farsi ricordare. Nella maggioranza dei casi si tratta di grandi imprenditori, non esclusivamente legati al mondo dell’arte. La loro, attiva, partecipazione li mette in luce sul piano dei loro affari collaterali al contesto, parallelo, del collezionismo. Chissà che non si possano fare conoscenze utili su più livelli. Certi ambienti, si sa, funzionano grazie alle coincidenze astrali più difficili, più complesse, uno di questi è il mondo dell’imprenditoria. Laddove le relazioni interpersonali hanno una forte valenza, soprattutto, economica è giusto presenziare e, potendoselo permettere, partecipare, aggiudicandosi tutto l’aggiudicabile. Dal digital marketing siamo passati al marketing diretto, quello che catalizza la curiosità degli altri e rende possibili relazioni, apparentemente, impossibili.

Tornando un attimo indietro nel tempo, questa immagine rappresenta, il diplomatico e grande collezionista d’arte russo, Alexandre Petrovič Basilewsky, nato in Ucraina nel 1829 e morto a Parigi nel 1899. Per dire che, spesso, purtroppo o per fortuna per loro, il collezionismo diventa una vera e propria ossessione compulsiva, diventa l’oggetto del desiderio, non per l’arte in sé, ma per l’immagine che si vuol dare di sé, al resto del mondo. Non importa cosa e a quanto, importa il fatto di possedere e di avere qualcosa di inimmaginabile da poter mostrare. L’arte è un genere di collezione tra le più dispendiose, escludendo quelle di auto d’epoca e super car moderne, ha il suo fascino e dona, soprattutto, un’immagine accattivante di chi se ne rende protagonista. La nascita di questo meccanismo infernale permette a certi artisti di vivere nel lusso, non a caso Jeff Koons, insieme ai suoi palloncini colorati, può vantare di essere l’artista più ricco al mondo. Nutro un sentimento di amore e odio nei suoi confronti, lo trovo davvero troppo kitsch, eppure, forse proprio per questo, attira la mia attenzione e non solo la mia, evidentemente.

Vedete, il mondo dell’arte è una favola all’interno della quale potremmo raccontare un’altra infinità di favole, ogni volta diverse, ogni volta più o meno avvincenti. Il fascino di un mondo culturale in continua evoluzione è proprio questo. Gli ambienti cambiano, le persone cambiano, gli interessi cambiano ma si continua a produrre arte, a guardare arte e a vendere arte. Non è cambiato niente, dall’antica Grecia ad oggi siamo sempre gli stessi, sempre con le stesse necessità di affermazione, sempre con lo stesso desiderio di apparire, di mostrarci, di farci riconoscere tra la folla: “Lui, è lui quello che ha speso 275mila euro per la Merda d’artista“, forse non è proprio quello che, quel raro collezionista, spera di sentirsi dire, eppure, quei soldi, li ha spesi veramente e magari, nonostante lo scherno, si sarà trattato di un giusto investimento. D’altra parte non sempre ciò che è bello piace, non sempre ciò che conta viene preso in considerazione.
“È un mondo difficile… È vita intensa. Felicità a momenti, e futuro incerto.
Il fuoco e l’acqua, concerto e calma, sonata di vento.
E nostra piccola vita, e nostro grande cuore.”
(Antonio de la Cuesta, meglio noto come Tonino Carotone, “E’ un mondo difficile”, 1999)
Arianna Forni