“Sociologo è colui che va alla partita di calcio per guardare gli spettatori.”
(Gesualdo Bufalino, “Il Malpensante. Lunario dell’anno che fu” – sez. Agosto, 1987)
Per filosofia sociale si intende, con esattezza, il rapporto instaurato tra un individuo e un altro, all’interno di una stessa società, di uno stesso ambiente condizionato da leggi, regole dette e non dette, cliché e doverose reverenze. Si tratta di un legame, inscindibile, che determina una buona o una cattiva convivenza con i propri pari, con i famigliari, con i vicini di casa, con chiunque dovremo incontrare nel nostro quotidiano, dal bar sottocasa ai colleghi in ufficio. La filosofia sociale si evolve nello studio sociologico degli atteggiamenti umani, studiati e catalogati, esattamente, come nello studio del mondo animale, dei branchi. Nonostante il dono della parola e dell’eleganza nel portamento, doni non sfruttati da tutti in egual misura, anche noi rientriamo nel mondo animale e, come tale, meritiamo di essere studiati, con l’intento di migliorare la specie. Difficilissima realizzazione ma non bisogna desistere, tentar non nuoce e la sociologia potrebbe venirci incontro, almeno, per prendere coscienza delle nostre abnormi incongruenze, dei nostri errori, della nostra inconsistente capacità di renderci autosufficienti. L’uomo è un animale sociale, ovvero è un animale da branco ed è nel branco che dovrebbe imparare a relazionarsi per vivere bene ed evolversi. La cosa appare, estremamente, difficoltosa proprio perché a nessuno piace ammettere di aver bisogno degli altri. Siamo, a tutti gli effetti, animali sociali con la netta necessità, data da un orgoglio preponderante, di affermarci in quanto singoli individui, fingendo, al meglio, di bastarci da soli. Egocentrismo, come se piovesse, sguardi di compatimento, elargiti a tutto spiano, egoismo spasmodico, vanità irriverente e sottigliezza pungente nel giudicare sono la versione migliore dell’uomo moderno. Bisogna partire dall’inizio, dallo studio, quasi artistico, dei comportamenti, come detto, sociali. Sono innumerevoli gli studiosi interessanti a questo settore umano e umanitario, di conseguenza, incline ad una maggior comprensione rispetto alla nostra routine, ai suoi pro e a tutti i contro. Possiamo partire da Auguste Compte, passare da Emile Durkheim e, infine, arrivare a Max Weber, ce ne sarebbero molti altri da annoverare in questo elenco, restringiamo il campo e concentriamoci, scopriremo quanto l’animo umano sia, da sempre, complesso e condizionato, da sé stesso e dal resto del mondo. Il contesto sociale e sociologico attira, perché attirano i comportamenti sociali degli individui, nelle loro strette o casuali relazioni, nella loro insita prevaricazione o nella sottomissione più totale. La differenza più grande è giocata dal proprio carattere ma non è l’unica cosa che conta, contano le persone incontrate, le relazioni instaurate e la capacità, della propria mente, di restare associata a sé stessa dissociandosi dagli avvenimenti esterni. Risulta molto importante creare un parallelismo, e un confronto, tra gli studi di Compte, Durkheim e Weber, ognuno dei quali affronta lo stesso tema secondo punti di vista diametralmente opposti. Anche questo, come punto di partenza, dimostra quanto, realmente, l’uomo si ponga in modo differente rispetto ad un medesimo obiettivo, in questo caso lo studio dei rapporti umani e delle interazioni sociologiche tra di essi.

Compte, ad esempio, era focalizzato sul positivismo, laddove l’epoca positiva è il terzo stadio della consapevolezza umana, dopo l’epoca religiosa e quella metafisica. Il Positivismo permetterebbe all’uomo di relazionarsi al mondo, seppure negativo, con una coscienza personale, e personalizzata, utile a fargli assimilare il mondo secondo una visione piacevole nonostante le avversità. Positivo, per Compte, è: reale, utile, certo, preciso e costruttivo; tutto questo si oppone alla negatività dell’illuminismo che vedeva, nel proprio divenire, esclusivamente la critica fine a sé stessa, senza possibilità di miglioramento. Il positivismo, al contrario, permetterebbe all’uomo, saggio e propositivo, di viaggiare in una direzione in crescendo, in base sia alle sue capacità, già acquisite, o da acquisire, sia alle situazione relazionali coltivate, e coltivabili. Il suo pensiero si inserirebbe, perfettamente, nel nostro contesto attuale, in cui la crisi ha il sopravvento ma una mente lucida e positiva potrebbe riuscire a trovare la soluzione, almeno, ai suoi personali problemi e a quelli della sua, ristretta, cerchia di familiari e amici. Da questa, sua, base di partenza, costruisce un pensiero dettagliato e preciso che condurrebbe verso un capitalismo sociale statalista, questa, però, è un’altra storia.

Ecco, invece, un pessimista, rigorosamente connesso con gli stati psicotici, suicidi, della popolazione, costretta a vivere in un contesto troppo rigido per permettergli di vivere seguendo le proprie ambizioni, sfruttando l’utilità del proprio pensiero e dandosi degli obiettivi precisi, prefissati e, soprattutto, raggiungibili. Nasce così la sua teoria legata, drammaticamente, allo studio del suicidio, elaborata nel 1897. Sotto questo aspetto la visione sociologica viene ribaltata in modo drastico, pessimistico, senza possibilità alcuna di trovare scappatoie utili alla sopravvivenza, felice, in un modo troppo faticoso per essere affrontato a cuor leggero. Durkheim suddivide le varie tipologie di suicidio in quattro: il suicidio egoistico, altruista, anomico e fatalista. Ognuno di essi ha scopi differenti, il più connesso con il nostro contemporaneo è il suicidio anomico, determinato da, effettive, difficoltà di inserimento in un contesto sociale economicamente troppo faticoso, troppo gravoso, per essere sopportato dall’individuo in questione, costretto, dal suo stesso orgoglio, a farla finita per non porsi in una situazione ancora più svantaggiosa rispetto a quella vigente nell’atto di vivere e continuare a farlo. Mi dissocio da queste teorie ma bisogna, in ogni caso, prenderne atto e comprendere il motivo per cui, qualcuno, abbia avuto l’idea di formularle. Da notare che la morte di Durkheim non avviene per suicidio ma a causa di un ictus dovuto ad un esaurimento nervoso, nel 1917, dopo essere caduto in uno stato di forte depressione, dovuto alla morte del figlio, nel corso della prima guerra mondiale.

A questo punto, invece, affrontiamo le teorie di Max Weber, legate ad un’etica di responsabilità sociale, strettamente, realistica. Passiamo, dunque, da un concetto positivo, ad uno negativo per inserirci in una contestualizzazione radicata nel realismo socio-politico-economico tipico delle società di ieri e di oggi. Weber contraddistingue la società sulla base politica che la governa, dando differenti definizioni in base alla tipologia di potere esercitato sul popolo. Abbiamo, quindi, un agire politico secondo un’etica dell’intenzione o di responsabilità. Nel primo caso il politico sarà indirizzato verso un modus operandi, standardizzato dal proprio ego, ossia legato alle proprie idee, per l’appunto, politiche. Tutto questo avviene, anche, nel caso in cui, le idee in questione, non si adattino, in nessun modo, alla situazione del momento, sottoponendo il popolo, e la politica stessa, a difficoltà, facilmente, superabili aprendo la propria mente verso nuove, e differenti, soluzioni. Nel secondo caso, quello dell’etica di responsabilità, la situazione viene ribaltata, il politico, e i politici, in questione, devono saper adattare i propri dogmi e le proprie convinzioni alle necessità sociali, e sociologiche, del momento vigente, assumendosi, per l’appunto, la responsabilità di un buon governo. Attualmente ci troviamo di fronte ad una situazione condizionata da fattori esterni ma, pur sempre, indirizzati verso un’etica di intenzione più che di, reale, responsabilità. La crisi economica, che ci affligge da anni, ormai, ne è la dimostrazione, il nostro rapporto con i vari partiti e le ideologie spicce o, addirittura, mancanti, sono un’ulteriore dimostrazione dei fatti, poco consoni ad una società moderna e modernizzata come la nostra. La responsabilità lascia il posto all’intenzione e l’intenzione ha sempre un fine personale e non sociale, questo per spiegare un assunto determinante nell’involuzione di un Paese che, dovendo evolversi, implode, coinvolgendo tutti, anche coloro privi di reale capacità decisionale.
La sociologia, troppo spesso, si lega all’arte del potere e del mantenimento del potere stesso, a discapito delle condizioni di vita del popolo e, nel nostro caso, delle aziende e dei lavoratori coinvolti. Un approfondimento dettagliato delle varie questioni dovrebbe condurre un Governo, etico e professionale, verso un’interpretazione responsabile delle leggi e dei propri, insiti, dogmi. Non a caso il mondo si sta trasformando in una grande società multietnica e internazionale, nella speranza, forse, di trovare delle soluzioni, copiando le teorie applicate in altri Paesi, dissimulando, perdendo, abbandonando il fine ultimo con cui un Governo dovrebbe governare: facilitare la vita e il lavoro, per sé, per il suo popolo, per la sua gente.
Un tempo, non troppo lontano, si viveva dando importanza ai comandamenti religiosi, non tanto per mera fede ma per caparbietà, tolleranza e delicatezza nei confronti del prossimo. Trovo questa citazione di Gesualdo Bufalino (1920-1996), poeta, scrittore e aforista, molto attuale e comprensibile:
“Sono gli uomini che hanno dissuaso Dio dall’esistere”
(Gesualdo Bufalino, “Bluff di parole”, 1994)
In questo caso, non si parla di religione fine a sé stessa, si parla di concezione sociologica ambientata in un contesto svilito dal degrado, causato dal popolo stesso, abitante del nostro tempo. Appare dissacrante sapere di vivere in una società dove niente, nessuno, possiede più valori concreti, dove la sociologia di relazione ha lasciato spazio alla sociologia dell’apparenza, riducendo l’uomo stesso da animale sociale ad animale e basta.
“Lo stato nascente è per definizione transitorio. Non è uno stare, è un andare verso; e l’arrivare è un essersene andato. L’innamorarsi, quando tutto procede bene, termina nell’amore; il movimento, quando riesce, produce un istituzione.”
(Francesco Alberoni, “Innamoramento e Amore”, 1985)
L’istituzione, di cui parla Francesco Alberoni, è fondata sull’amore, non solo all’interno di una coppia, all’interno dell’intera società, coltivata e vissuta con un sentimento univoco, volto al miglioramento, volto alla costruzione di un futuro migliore basato sulla cultura e sull’arte, sociologica, di saper vivere. Non è poi così difficile
Arianna Forni