“La critica è un’imposta che l’invidia percepisce sul merito.”

“La critique est un impôt que l’envie perçoit sur le mérite.”

(Pierre-Marc-Gaston de Lévis, Maximes et Réflexions”, 1833)

Pierre-Marc-Gaston de Lévis, francese di nascita, per l’esattezza nel 1764 a Parigi, dedicò parte della sua vita alla scrittura, spesso satirica, in relazione al suo contemporaneo. Durante la Rivoluzione Francese fu costretto a scappare in Inghilterra per salvarsi la vita. Morì nel 1830 sobbarcandosi il peso di aver abbandonato tre sorelle e la madre nel subbuglio di una Francia in estrema crisi e dove, malauguratamente, morirono tutte e quattro condannate alla ghigliottina. La citazione, con cui ho scelto di aprire questo commento, è del tutto in linea con il personaggio che l’ha scritta. Nel 1816 ottenne una delle sei poltrone dell’Académie française, il corrispettivo della nostra Accademia della Crusca, soppressa durante la Rivoluzione Francese e poi ristabilita, nel 1803, durante l’Impero di Napoleone Bonaparte. Un personaggio del suo calibro non avrebbe potuto subire l’umiliazione di andare in contro a morte cerca a causa dell’ignoranza che serpeggiava nella Francia rivoluzionaria, fu solo questo il motivo per cui decise di abbandonare il suo Paese, a cui era profondamente legato e che, in un certo senso, gli avrebbe, successivamente, restituito onori e meriti, sebbene, come egli stesso afferma, molto criticato. Quell’imposta a cui tutti noi dobbiamo sottostare, quel pegno, da pagare, per essere o troppo bravi o troppo egocentrici, pur privi di capacità effettive. La critica punge, a volte, stride, altre, ferisce profondamente ma ha un senso, possiede una propria identità, ben stabilita, è utile ma, solo ed esclusivamente, se si basa su concetti costruttivi, se nasce dalla conoscenza. I critici sono le figure professionali che dovrebbero garantire credibilità alle proprie affermazioni, ci sono critici più o meno tranchant e altri più delicati ma, pur sempre, possiedono uno scopo univoco: criticare. Il termine, in sé e per sé, ha una connotazione negativa, l’uomo ha dato alla critica un significato inadeguato. Il fine ultimo con cui emerge la necessità di concedere una libertà di parola ha uno scopo aulico e concessivo, di conseguenza, libera un pensiero, sia esso in favore o contro la persona, l’oggetto, la cosa, criticata. Criticare e giudicare sono attività ben distinte. Chi critica non giudica e chi giudica non critica. Cerchiamo di non fare confusione. La critica ha un valore, intrinseco, comporta visibilità, non distrugge ma smuove le masse lanciando aliti di curiosità tra le folle interessate. Proprio su queste basi nasce la critica giornalistica, un vero e proprio settore dedicato ai commenti, dei sapienti, nei confronti, normalmente, dell’arte e della letteratura. Nel nostro caso vogliamo concentrarci sulla critica artistica, ovvero la critica nei confronti dell’arte visiva, di tutto quel settore in cui l’espressione di un pensiero, di un’emozione, di sentimenti, avviene attraverso una produzione, fisica, di un oggetto d’arte, da esposizione. Questo genere di critica è la base su cui, nella maggioranza dei casi, l’artista contemporaneo costruisce il suo personale marketing. Più gente parla di un’opera più sarà facile attirare curiosi e catturarne l’interesse, di conseguenza, sarà più semplice e immediato vendere. Il problema della critica artistica è, spesso, assurgersi a Nostradamus moderni capaci di entrare nella mente dei personaggi del nostro grande passato, sottoponendoci a considerazioni, a volte, troppo addentro un pensiero di un uomo da cui non avremo mai la possibilità di avere risposte concrete, se non nell’osservazione delle sue creazioni che, però, ahimè, non parlano. Possiamo comprendere quanto sia facile sbilanciarsi e rendersi credibili parlando, ad esempio, di Jan Vermeer, “Allegoria della Pittura”, 1666/1668:

Jan Vermeer, il pittore e la modella, 1666 - 1668 - da Finestre sull'Arte
Jan Vermeer, Allegoria della Pittura, 1666 – 1668 – da Finestre sull’Arte

Partiamo dal titolo dell’opera stessa, alcuni la chiamano Allegoria della Pittura, altri Il Pittore e la modella, oppure La musa e il pittore, o ancora L’Atélier, già da questo punto iniziamo a capire quanto sia difficile determinare cosa realmente volesse rappresentare Vermeer, eppure in molti hanno detto la loro, tutti ne hanno parlato dimostrando una massima conoscenza dell’opera. L’unica cosa che sappiamo, con certezza, è che la firma dell’artista si trovi sulla carta geografica a destra della modella. Si dice fosse una sorta di testamento dell’artista sull’arte della pittura, ceduta, nel 1676, dalla vedova di Vermeer, alla madre, probabilmente, per salvare l’opera dalle aste. Sono supposizioni, nessuna certezza, esattamente come non potrebbe essere possibile assicurare che, proprio quest’opera, fosse l’emblema dell’arte della pittura, come ci è stato fatto credere da chi, postumo, ne ha redatto varie critiche. Questo contesto serve a spiegare quanto sia difficile entrare nella mente e nel cuore di chi ha vissuto troppo indietro nel tempo rispetto al nostro contemporaneo, senza lasciare scritti autografi che, minuziosamente, spiegassero il senso di ogni pennellata, di ogni tela sopravvissuta ai secoli, fino ad oggi.

Appare molto più immediato applicare un’analisi critica ad un’opera contemporanea, magari con l’artista in vita che abbia, quindi, la possibilità di ribattere, di esprimersi, di spiegare, qualora, ovviamente, sia suo desiderio farlo. Prendiamo da esempio Michael Cheval, un pittore contemporaneo che, non smetterò mai di dirlo, ammiro e apprezzo profondamente:

Michael Cheval - da Tutt'Art
Michael Cheval – da Tutt’Art

Il mago del surrealismo moderno, l’artista della perfezione fantasy, l’illusionista delle emozioni più profonde, lui sa dove vuole andare, sa come arrivarci ma, soprattutto, sa come catturare la nostra attenzione e ci riesce perfettamente. Guardate gli occhi di questo personaggio, guardate la delicatezza e la perfezione delle sue mani che terminano nei bianchi polsini di un abito, in realtà inesistente. Il personaggio si materializza al nostro sguardo attento, lasciando la sensazione di poter scomparire da un momento all’altro, come lo Stregatto di “Alice nel paese delle meraviglie”. Il volto – possiamo chiamarlo volto? – compare da questo fittizio collo bianco a pieghe, avvolto da una pianta, non si sa se nasca da sé oppure per sé. Tra le dita regge un bocciolo, simile ai bottoni di quell’abito mai finito. Ci scruta intensamente, cosa vuole da noi? Siamo catturati da un numero inverosimile di domande, siamo persuasi dalla realtà di ciò che stiamo osservando ma non siamo, in definitiva, davvero convinti che esista realmente. Il mago non è il personaggio della tela, il mago è Cheval che l’ha dipinta. I critici sguazzano in queste cose, di una tela del genere si possono dire miliardi di parole e scrivere: “Chilometri di lettere –  Sperando di vederti ancora qui – Inutile parlarne sai, non capiresti mai”, “Come mai” (883, 1993) ? “Non capiresti mai – Seguirti fino all’alba e poi – vedere dove vai – mi sento un po’ bambino ma – lo so con te non finirà – il sogno di sentirsi dentro un film.” Questa strofa della canzone Come mai degli 883 si adatta perfettamente a quello che intendo dire con critica giornalistica. Un critico, magari molto affermato, anzi sicuramente affermato, parla di un’opera d’arte, qualsiasi essa sia, gli appassionati lo ascoltano avidamente per cercare di capire il più possibile. Passi per le componenti tecniche di pittura, o di scultura, o di scrittura eccetera, eccetera, passi per la contestualizzazione storica e sociale dell’opera stessa, passi anche per le nozioni legate alla vita dell’autore, passi tutto quello che ha fonti certe, reperibili da qualsiasi comune mortale con la voglia e l’interesse per documentarsi, è il seguito che fa acqua da tutte le parti. I critici si spingono oltre, si insinuano nell’opera stessa per darne un resoconto sentimentale non personale, bensì impersonificando sé stessi nell’autore. Sono in accordo sul desiderio di estrapolare dei concetti, palesi o meno, emergenti dal contesto determinante per la produzione proprio di quell’opera ma, devo dirlo, detesto sentirmi dire cosa è obbligatorio osservare, per capire la profondità del concetto rappresentato, sulla base del pensiero del critico in questione. Perché? Io capisco che qualcuno abbia bisogno di una linea guida, forse per inesperienza o poca conoscenza artistica e, quindi, poca lungimiranza nell’assimilazione dell’opera ma perché bisogna andare oltre? Nel caso di Cheval basterebbe alzare la cornetta e convincerlo a rilasciare un’intervista, risolveremmo tutti i problemi di interpretazione. Nel caso di Vermeer, preso da esempio poco fa, non è possibile. Limitiamoci a guardare, ammirare e constatare ciò che non può, e non potrebbe, essere smentito. La critica deve, dovrebbe, basarsi sulla dottrina nozionistica, per quanto riguarda il passato, e sulla conoscenza degli artisti, nel nostro contemporaneo.

Anche perché, potrebbe sembrare una battuta ma non lo è, la critica scrosciante, come quella a cui spesso dobbiamo assistere inermi, ha dato vita a quel meccanismo infernale delle recensioni web. Un ulteriore ingranaggio che ruota, faticosamente, attorno alla competenza di qualcuno, che parla e scrive con cognizione di causa, e all’ignoranza di altri che si esprimono solo per il gusto di comparire sul web, in un modo o nell’altro. pensare che esiste anche chi paga per questo.

La critica è un mestiere, il critico è, deve essere, dovrebbe essere, un professionista a tutti gli effetti. Il suo scopo? Avvicinare più gente possibile all’arte, coinvolgere le persone nel mondo culturale, diffondere la conoscenza e incuriosire una platea sempre più ampia di inconsapevoli verso le bellezze di una mostra d’arte, di una galleria, di un unico quadro appeso ad un muro che potrebbe essere osservato per ore senza giungere mai alla definizione totale del suo insieme. Questa è arte. Questa è la meraviglia dell’arte.

“Accetto con gratitudine la più aspra critica, se soltanto rimane imparziale.”

(Otto von Bismarck)

Arianna Forni

Ritratto di Robert de Montesquiou, 1897, Museo d'Orsay, Parigi. - da Wikipedia
Ritratto di Robert de Montesquiou, 1897, Museo d’Orsay, Parigi. – da Wikipedia

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