“Cercare adagio, umilmente, costantemente di esprimere, di tornare a spremere dalla terra bruta o da ciò ch’essa genera, dai suoni, dalle forme e dai colori, che sono le porte della prigione della nostra anima, un’immagine di quella bellezza che siamo giunti a comprendere: questo è l’arte.”
(James Joyce, “Dedalus”, 1916)
Rispetto, passione, amore, conoscenza, competenza e dedizione, professionalità, potrebbero essere ingredienti validi per qualsiasi settore della nostra vita. Nell’arte, però, si esprimono con, ancor, maggiore nitidezza, li vediamo, li tocchiamo, li respiriamo osservando ogni opera. Una tela trasmette un suo mondo interiore e ci racconta tutte le caratteristiche dell’artista che è riuscito a portare a termine, proprio, quel quadro, quell’oggetto d’arte. Non importa che sia moderno, contemporaneo o antico, l’importante è che abbia un’anima propria, personale, custodita dentro di sé e fluida nell’etere dello spazio che la circonda. L’arte è magia a tutti gli effetti, la magia si vede quando la produzione è conclusa, non prima, ma, per la verità, nasce con l’idea dell’autore, il solo che possa, davvero, dar vita a quella tela, a quella scultura, a quel sentimento. Condividere non è sempre possibile, ci sono opere che ad alcuni strapperanno il cuore, ad altri faranno ribrezzo e, ad altri ancora, non lasceranno assolutamente niente. Dipende, dipende dalle proprie conoscenze ma dipende anche, e soprattutto, dall’autore, dal suo modo di proporsi e proporre la sua produzione. Non tutta l’arte può essere considerata arte, è un concetto di cui abbiamo parlato in svariate occasioni e, probabilmente, continueremo a farlo. Arte e artisti sono una cosa sola, non bisogna commettere l’errore di dividere due entità ben congiunte, indissolubili. Per quanto riguarda l’arte antica dobbiamo, per forza, considerare l’ambiente in cui nascono gli autori, catturano la nostra attenzione ma non basta, serve altro, dobbiamo guardare, in modo simbolico, dentro le loro case, conoscere i loro amici, parlare con le famiglie di appartenenza e inserirci nella storia che gli appartiene, in cui sono vissuti, cresciuti e nella quale, senza ombra di dubbio, avranno studiato e si saranno battuti per emergere tra i loro concorrenti. Ogni tempo ha i suoi pregi, i suoi difetti e le sue, innumerevoli, controversie. Al giorno d’oggi, siamo sommersi d’arte, di ogni genere, di ogni tipologia, rare bellezze, un mucchio di ciarpame ma alcune opere meritano di essere citate, alcuni artisti vanno elogiati per la loro capacità, per il loro reale sentimento, oppure, più semplicemente, per la loro aura suggestiva che attiva un meccanismo di passaparola, suggerendo investimenti importanti, da parte dei collezionisti privati e/o delle Banche che, sempre più spesso, investono in loro denaro in questo settore piuttosto che nei titoli o nella nuova ondata di cripto-valute.
Al MiArt 2018 ho scoperto un artista contemporaneo che, devo ammettere, non avevo mai considerato molto, eppure merita, merita la nostra attenzione grazie al suo tocco antico in uno specchio moderno, quasi, perfetto. Dico quasi non per abbassare il suo livello stilistico né d’immaginazione ma proprio perché la sua visione del mondo è troppo soft per definirci al meglio, per ciò che siamo, con tutti i nostri innumerevoli difetti e l’obbrobrio ambientale che ci circonda. Lui rende i paesaggi, urbani, naturali, psico-sociali, movimentati ma quieti, vivi ma ovattati, in rapida evoluzione ma dall’insieme statico. Mostra la calma di un modo mosso dalla fretta. Sto parlando di Alessandro Papetti, un artista entrato nelle grazie di Intesa San Paolo, il main sponsor, appunto, di MiArt 2018, ha accolto, nella personale collezione, una sua opera rappresentativa ma, a mio avviso, non la più rappresentativa per il suo modo di guardare al mondo e al gesto artistico:

Un interno esterno che si mescola lasciando a bocca aperta chi osserva, nel tentativo di scovare una soluzione a quell’enorme varco centrale che fa da punto focale a questo quadro dai mille movimenti ma privo di una reale, concreta definizione e identificazione, come, invece, può essere “Boulevard St Germain”, del 2006:

Qui si legge futurismo, movimento, velocità e velocizzazione, si legge antichità di un passato illuminante in quei palazzi francesi dal sapore rinascimentale, barocco, intrisi di neoclassicismo con una netta influenza romanica. La Francia ha saputo mantenere un sapore vivido di ogni passaggio secolare, calcato da personaggi di rilievo storico internazionale, colorati da concetti artistici ben distinti, con un carattere inequivocabile. Papetti ha saputo mettere insieme tutto questo, con l’aggiunta della nostra modernità tecnologica, legata al senso di velocità e di solitudine, di assordante silenzio nel caos cittadino, di confusione, di irriconoscenza e incapacità di riconoscere le strade a cui siamo abituati, ormai assuefatti da quei rumori, da quegli incroci sempre uguali ma diversi, ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo. Il tempo scorre, inesorabile, davanti a noi, sotto le suole delle nostre scarpe consumate dall’asfalto. Lui dipinge, tutto questo, con armonia e, nonostante la sensazione, opprimente, di rincorsa, verso qualcosa di non ben identificato, ci si sente parte di un mondo tutto uguale, nonostante i chilometri che separano una città dall’altra, un popolo da un altro. L’uomo non cambia mai, è uguale nella storia ed è uguale nel presente, ognuno con i suoi pensieri, ognuno con i suoi obiettivi e i suoi sogni, più o meno realizzabili, ognuno con le sue ambizioni, le sue conoscenze, la sua famiglia, a cui badare, i suoi affetti. Ognuno vive nella sua città, nel suo ambiente e lì, a discapito delle difficoltà incontrate quotidianamente, si sente a casa, nel traffico, in quei rumori, già, i rumori, si sentono, silenziosamente, uscire dalle opere di Papetti. Compare la magia, si percepisce il respiro, guardando questo quadro udiamo la lingua francese, assaporiamo il profumo dei bistrot, ci sentiamo parigini anche noi, poi cambiamo opera e con l’opera cambiamo città:

Andiamo a New York, la lingua cambia, la strada cambia, cambia l’orario di posa, cambia tutto ma, in fin dei conti, non cambia niente. La solitudine è più vivida, siamo nella città più conosciuta al mondo, siamo nella Grande Mela, al centro dell’universo cosmico di questa nostra Terra, per strada non c’è nessuno. Sembra notte, eppure New York è la città che non dorme mai, le vetrine sono illuminate, la strada si muove, come se stessimo osservando fuori dal lunotto di una vettura. Niente, siamo soli, soli nell’immensità globale degli edifici, fulcro dell’America moderna. Non siamo a Manhattan, no, le case sono troppo basse ma, sì, possiamo respirare qualcosa di diverso rispetto alla Parigi di poco fa, siamo laddove tutto è possibile ma dove, allo stesso tempo, niente lo è, davvero. Siamo piccoli, infinitamente piccoli, siamo soli ma non abbiamo paura, la città è calda sebbene sia dipinta con colori freddi, impersonali. Il rapido movimento è un’ipotesi di crescita, un ricordo del passato, già proiettato nel suo futuro. Sta per fare giorno, ci troveremo da un’altra parte, forse più soli, più coinvolti dal nostro Io interiore, dall’introspezione personale che, sola, ci permette di percepire l’andamento rapido delle ore, dei cambiamenti fisici e mentali a cui stiamo andando incontro, anzi, che ci hanno investiti più e più volte, fino a questo momento. Chissà cosa succederà dopo.

Persi nel nostro intimo, persi nella nostra anima, persi in una psiche difficile da controllare, indecifrabile per gli altri e, forse, anche per noi stessi. Ci guardiamo attorno, proprio come questa donna osserva i suoi riflessi nell’acqua. Siamo soli ma non siamo una cosa sola, siamo tante cose, racchiuse in un unico corpo, bello, brutto, bello e brutto allo stesso tempo, piacente, disponibile oppure no, forse per qualcuno ma per altri saremo sempre inavvicinabili. Intanto guardiamo i riflessi di ciò che siamo, di ciò che crediamo di essere e di ciò che vorremmo essere. C’è troppa differenza, poca concretezza, troppa timidezza nell’affrontare le ambivalenze che convivono in noi. Dobbiamo mantenere equilibrio, renderci stabili, dimostrare di avere una, una sola identità, con ideali forti, concreti, mai diversi, sempre simili a sé stessi. Siamo uomini non siamo finti, abbiamo un cuore e lo sappiamo, lo sentiamo battere nel nostro petto e lo vediamo in quei riflessi ma non possiamo mostrarlo agli altri, non dobbiamo regalare la possibilità a qualcuno di farci del male, di sapere come ferirci. Finché siamo soli possiamo essere ciò che vogliamo, spogliarci di tutto ciò che, normalmente, indossiamo per uscire di casa, spogliarci delle maschere e dei vestiti e osservarci dall’interno e dall’esterno. La costruzione di ogni individuo, da bambino ad adulto, passa attraverso milioni di momenti come questo, milioni, e forse non bastano. Questa tela si muove pur non muovendosi mai, si muove dentro la nostra pancia ma, in sé, è immobile. Siamo noi, nell’immobilismo che ci governa e nella consapevolezza di doverci dare una mossa. Dobbiamo sbrigarci, il tempo non ci aspetta, non aspetta nessuno. Vogliamo pace, andiamo in un bosco:

Perdiamo l’orientamento, tra tutte quelle foglie, quelle piante, quei tronchi, è tutto troppo uguale, niente cambia eppure continua a cambiare, lo fa veramente. Il bosco è vivo, non come le nostre città, costruite nel cemento, in cui siamo bravissimi a muoverci con disinvoltura. Qui non siamo soli, siamo circondati dalla vita, si sente il respiro del bosco stesso, si sentono gli animali che lo abitano, si vede il continuo cambiamento, ciò che muta, ciò che vive e ciò che muore. La paura ci assale, stavamo meglio in città, nella nostra automobile, nel traffico ad ascoltare i clacson ai semafori e le sirene della Polizia, quei rumori ormai non li sentiamo più, qui, qui siamo in balia della natura, lei è più forte, lei può vincerci, se solo riuscissimo a dominare noi stessi troveremmo la pace, quella vera, quella sincera, quella di cui l’anima, di ognuno di noi, avrebbe bisogno. Siamo sfiniti, il viaggio è lungo, non ha termine, forse sarebbe il caso di partire:

Andiamo al mare? Sulla spiaggia, a prendere il sole, giocare con la sabbia, riscaldarci le ossa, ritrovare la serenità, smaltire lo stress prima di tornare nelle nostre città a lavorare. Siamo in estate, che bella l’estate, quella degli adolescenti innamorati della vita, pronti a cambiare il mondo, desiderosi di crescere il più in fretta possibile per fare quello che vogliono, come vogliono, senza subire l’influenza delle famiglie. Quanto si sbagliano, gli adolescenti, solo crescendo capiranno quanto, veramente, la famiglia sia la sola cosa importante, l’unica su cui contare, anima e corpo. Eppure quelle vacanze, quei viaggi estivi, quei momenti in compagnia, non si sa bene di chi, non si sa bene per quanto tempo e nemmeno esattamente dove, non si scorderanno mai. Quel senso di libertà finisce presto e poi arrivano le responsabilità, come questa nave, pronta per essere messa in acqua, pronta per solcare il mare e portare i vacanzieri in qualche posto lontano, libero dalla paura e ricco di iodio, che fa bene alle ossa ma anche allo spirito. Siamo uomini e Papetti ce lo racconta così bene da farci commuovere.
Alessandro Papetti, milanese, dove nasce nel 1958, sfrutta tutta la sua vita, dagli anni Ottanta in poi, per dedicarsi alla costruzione di questo percorso artistico infinito, dall’impalpabile verismo, dall’inconsistente relazione spazio-temporale tra noi e, beh, ancora noi. Credo che la frase che sto per citare, in conclusione di questo commento artistico, sia la più netta e definita per contraddistinguere ciò che siamo e ciò che Papetti ha fatto per noi. Qualcosa di grande, qualcosa di speciale, qualcosa di davvero utile ma, attenzione, va letto tutto correttamente.
“Il compito attuale dell’arte è di introdurre il caos nell’ordine.”
(Theodor Adorno, “Minima Moralia”, 1951)
Arianna Forni