“Bisogna regalare ai genitori i nostri giorni, il nostro tempo, quello che si dice di non avere mai… Ma allora quale tempo in più ci regala Dio? Quello che noi regaliamo e che doniamo agli altri, che ci torna indietro decuplicato. “Cerca dentro di te i giorni che non credevi di avere, cercali… Io te li ho dati”.”
(Roberto Benigni)
La solitudine che finge partecipazione, ci illude di essere insieme a qualcuno, ci fa sentire parte del mondo. L’hanno chiamata tecnologia ma avrebbero dovuto chiamarla, semplicemente, solitudine. Un tempo si parlava con persone in carne ed ossa, ci si confrontava, si discuteva e ci si abbracciava per fare pace, ci si conosceva con una stretta di mano e un sorriso, ci si guardava negli occhi. Oggi no. Oggi si guardano i cellulari, gli schermi dei nostri splendidi smartphone e dei personal computer, si guarda il mondo “da un oblò, mi annoio un po’, passo le notti a camminare dentro un metrò, sembro uscito da un romanzo, giallo ma cambierò […]” (Gianni Togni, “Luna”), già, cambierò. Il problema è che quel cambiamento è, ormai, impossibile, si va avanti, non si torna più indietro, nemmeno quando ci si accorge di quanto si stesse meglio prima. La tecnologia ha davvero aperto delle porte spazio-tempo, fino a qualche anno fa, inimmaginabili, ci ha regalato tante chance, tante possibilità di progettazione, di sfruttamento di un meccanismo infernale che ruota attorno ad un marketing di immagine e non più di pensiero. Bisogna sapersi adattare, però, a volte, è dura. Dura da digerire, dura da accettare, dura perché prima era tutto più bello, eravamo meno soli, meno connessi ma più equilibrati. Le dinamiche quotidiane sono cambiate in modo radicale, sono cambiati anche i bambini, è questa la cosa grave. Per gli adulti si può fare ben poco ma per i bambini, beh, per loro bisognerebbe costruire un mondo migliore, basato sui rapporti interpersonali e sull’educazione in grado di inserire, non allontanare. I bambini hanno sempre giocato insieme, ora preferiscono sedersi sui gradini fuori dai negozi intanto che i genitori comprano, comprano, comprano ancora, per essere al passo con la moda, per sentirsi accettati da quei quattro amici, che frequentano raramente, per mantenere il proprio status in quel dedalo, di ingranaggi instabili, in cui lavorano. Già, è dura. Alla fine si finisce sempre per parlare del tempo, corre, scalcia, si impenna, ci scuote, a volte ci prende a sberle ma non si ferma, per nessuno, nemmeno per quel bambino con il cappello di paglia, fisso su di uno schermo impersonale, quasi fosse altrove, quasi non esistesse niente attorno a lui se non quel telefonino, un modo come un altro per tenerlo buono mentre chi dovrebbe occuparsi di lui si sta occupando di sé stesso. Non c’è più coerenza, siamo anaffettivi e privi di stimoli sensoriali. Viviamo in un cyber spazio fittizio, finto e inesistente. Chi c’è dall’altra parte di quello schermo? Non lo sapremo mai, se dovesse andarci bene, purtroppo potrebbe anche andarci malissimo ma a questo non pensa, quasi, nessuno. Cosa vedete guardando quel bambino? Tristezza, forse, inconsapevolezza, forse, sicuramente non gioia spensierata e stupore, solo noia condita dalla tecnologia che avanza. Si fa fatica ad accettare tutto questo, eppure siamo i primi a non scollarci dai nostri telefoni, dalle e-mail e da quel digital marketing prepotente che ha reso Vip chi Vip non è e ha distrutto chi, invece, avrebbe potuto esserlo in un mondo diverso, fatto di cultura e non di apparenza e notizie aberranti.

Il tempo che tarpa le ali a Cupido sembra proprio lo specchio di ciò che siamo oggi, di ciò che vediamo guardando quel bambino seduto, a gambe incrociate, fuori da un negozio. Privo di amore, privo di sentimenti. Cupido non esiste più, senza ali come potrà raggiungere i nostri cuori? Spesso chi ama lo fa per gioco, chi ama davvero, invece, lo fa con speranza ma poi si chiude dietro uno schermo per paura di essere ferito e, allora, smette di amare, tanto: a cosa serve? Siamo soli, tutti soli dentro un mondo sovrappopolato. Cosa ci è successo? Perché? Quel bambino è l’arte di oggi, guardatelo bene, è l’emblema del nostro quotidiano, di ciò che siamo e, probabilmente, di ciò che saremo. Sì, è dura ma dobbiamo pur vivere, ci siamo assuefatti alle nuove abitudini, ci siamo convinti che tutto questo sia giusto, che possa esserci qualcosa di buono, allora inventiamo, sogniamo, guardiamo avanti speranzosi perché quei sogni riescono a tenerci ancora attivi. Chissà quali sono i sogni di quel bambino seduto a terra. La tecnologia ci sta convincendo di essere invincibili e immortali, ciò che postiamo oggi rimarrà anche domani, qualsiasi cosa possa accadere, qualsiasi sia il nostro futuro e ovunque potremo trovarci. Non basta a renderci meno soli. L’avvicendamento di questo mondo non ci lascia tregua, siamo nel vortice dell’avanzamento tecnologico, anche l’arte, ormai, è tecnologia, non sono più le mani dell’artista a fare dell’opera, un’opera, sono i robot, sono i calchi, gli stampi, come in una catena di montaggio, poi il pubblico osserva, ammira e prova a commuoversi come se stesse osservando una capacità e non una semplice idea realizzata con i soldi e non con le mani nude e il sudore della fronte. L’arte non può avere connessioni tecnologiche. L’arte è arte solo se si tratta di una produzione personale, tutto ciò che viene commissionato a produzioni in serie non è più arte, è merchandising, sono due cose diverse. Non esiste più il pezzo unico, esistono riproduzioni di un pensiero stampate a fuoco e trasformate in un mero brand senza anima. Quel bambino, però, ce l’ha un’anima, allora lui può essere arte, potrebbe anche fare arte se solo si staccasse da quel telefono e prendesse in mano un album da disegno, dei pastelli e si sporcasse le mani con i colori. La tecnologia non sporca, a volte dipinge, con cyber colori, nessuna traccia, nessuna goccia caduta per sbaglio sul pavimento, niente da pulire, niente da lavare. Si fa meno fatica, forse, ma si azzera la soddisfazione e il divertimento.

Il bambino seduto per terra si è alzato, Banksy l’ha fatto alzare, ora grida, piange, si dispera: perché? Semplice perché da quella diavoleria che stringe tra le dita, ancora piccole, non è arrivato ciò che si sarebbe aspettato, i like, i messaggi, le richieste di amicizia, la popolarità. Stiamo crescendo dei bambini con la sindrome dei followers e degli adulti ossessionati dai cuoricini di Instagram, come fossero tornati indietro ai tempi dell’asilo, nido. Il contesto non è dei migliori, né per poter far crescere i bimbi, né per poter assestare la psiche degli adulti social-patici. La tecnologia rende tutto più semplice ma amplifica la sofferenza, tanto quanto amplifica la visibilità di qualche fortunato, sì, beh, fortunato forse no, sostenuto dai Santi in Paradiso sicuramente sì. Si crea un circolo vizioso per cui chiunque senta, dentro di sé, la necessità, insita, di doversi far ascoltare da altri. Molti profili hanno un senso, una logica, uno studio dietro alla costruzione di un personaggio o di un ingranaggio di marketing volto alla vendita di qualcosa; inutile fare degli esempi, i Top li seguiamo tutti, quello che sarebbe interessante potrebbe essere intervistare i Flop e capirne di più. Come si sentono, i Flop? Forse atterriti, o atterrati, oppure seduti a terra come il bambino fuori dal negozio. La genialità di internet e la stupidità dell’uomo, di tutti noi. Boccaloni.

“Snort, Sob, Uff, Bah”, io mi chiedo dove siamo diretti e come vogliamo arrivarci. Mi chiedo questo perché vivo di sensazioni, di ricordi e di desideri. Vivo, anche io, come voi, su internet, altrimenti non sarei qui a scrivere, non sarei qui a cercare comprensione, a limitare la solitudine di questo ufficio grazie alla consapevolezza di avere dei lettori, i famosi followers. Quindi? Quindi siamo tutti uguali, con gli stessi problemi, più o meno risolvibili, più o meno importanti. Ad ognuno i suoi, ad ognuno i suoi parametri. Ora, torniamo a quel bambino seduto per terra, a gambe incrociate, con la sua camicia di jeans stirata e quel bel cappellino di paglia in testa, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il cellulare in mano, ecco, quel bambino rappresenta tutti noi. Attenzione, però, non è detto che ci piovano milioni di like, e altrettanti dobloni, tutti sulla testa, come i grandi Influencer moderni. Poi, per quanto durerà il mestiere dell’Influencer? Forse, fino a quando qualcun altro non riuscirà ad inventarsi qualcosa di diverso, di più incisivo, di meno pomposo, meno scenico, con meno ostentazione di una ricchezza ancor più finta degli amici virtuali. Intanto scendo a bere un caffé al bar, magari riesco a scambiare quattro parole con qualcuno, di vero, oppure potrei incontrare quel bambino. Penso che scenderò con una palla, sono certa che tra quattro calci al pallone e quel telefonino sceglierà la prima, tornando ad essere un bambino nel corpo di un bambino; dal canto mio, ritroverò la spensieratezza con cui tutti gli adulti dovrebbero tornare a giocare, con consapevolezza, gioia, ilarità e delicata irriverenza.
“Arriverò a una soluzione circa il problema del tempo. Quando l’infinito mostra un lembo della sua veste, esso getta sul problema la sua ombra immensa; allora si brancola, ma è fatica perduta.”
(Sully Prudhomme, “Diario Intimo”)
Arianna Forni
