“Io sono convinta che la scrittura non serva per farsi vedere ma per vedere.”
(Susanna Tamaro, “Cara Mathilda. Lettera a un’amica”, 2001)
Una lunga storia, quella della scrittura, una lunga storia ricca di aneddoti, di difficoltà, di gioia e di ecatombe. Una storia fatta di parole, ordinate, lineari, leggibili, pulite. Una storia di frasi, brevi, dense di significato, quelle troppo lunghe non ci piacciono, spezzano il fiato, rovinano l’atmosfera. Una storia di amanuensi e scrivani, poi, ora, di giornalisti computerizzati. Una storia dove scrivono tutti, ad emergere, beh, non sono sempre i migliori ma questo è un dato di fatto, vale per tutto, vale per tutti. Una storia che ha fatto storia e segnerà la storia futura. Tutto cambia, tutto ha una fine tranne la scrittura, l’unico modo possibile attraverso il quale far vedere delle immagini, tra le righe di un libro, di un giornale, di un articolo, è attraverso le parole. Scrivere, evasione e punto di incontro, scappatoia dal male del mondo e unione nella lettura. Scrivere, benedetti coloro che sanno scrivere, benedetti coloro che sanno leggere. Si tratta di un circolo vizioso, non è facile, per alcuni, comprendere l’importanza della scrittura e, allo stesso modo, della lettura; entrambe le cose corrono, veloci, sullo stesso binario e si prodigano per noi, per la nostra conoscenza, per la nostra cultura. Abbiamo centinaia di strumenti per poterci documentare, abbiamo altrettanti strumenti utili a velocizzare la scrittura, per la lettura, ahimè, serve solo voglia e tempo, nessuno potrà mai escogitare un meccanismo per rendere più rapida la lettura di un libro, di un testo, di un giornale, di qualsiasi cosa. Leggere è così bello, è bello potersi immergere nelle parole di qualcun altro perché, proprio quel qualcuno, ci vuole narrare un mondo, suo, personale, un punto di vista differente rispetto al nostro, uno sguardo attraverso un oblò diverso, una concezione al di sopra dello spazio e del tempo, un’evocazione, un viaggio speciale per il quale non servono additivi di nessun genere, non serve nemmeno uscire di casa. Basta leggere, saper leggere, saper ascoltare il fluire del fiume di parole che scorrono, cadenzate, davanti ai nostri occhi, nella nostra mente, nel nostro cuore. Sembra impossibile, al giorno d’oggi, non legge più nessuno, dicono, ma non è vero, qualche fedelissimo esiste ancora, quelli che conoscono l’odore dei libri ci sono, eccome. Eppure, non è così facile trovare delle buone letture, come, giustamente, titolava il Post, il 15 Giugno del 2016, “Chi scrive i libri che si vendono in Italia”, l’immagine di riferimento era questa, rende, perfettamente, l’idea:

Ci sono delle eccezioni che confermano la regola ma sono rarissime, gli altri sono scribacchini imbratta carta, uno spreco di tempo e un insulto alla cultura ma, diamine, vendono, per la teoria dei grandi numeri, e dei guadagni facili, si pubblicano sciocchezze, per un pubblico sciocco che si emoziona con Temptation Island e non con “La rabbia e l’orgoglio”, tanto per fare un esempio. Quindi c’è da chiedersi perché i veri scrittori scrivano:
“Ma perché scrivo? È l’unico mio conforto.”
(Ambrogio Bazzero, “Storia di un’Anima”, 1885)
“Perché scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me. O anche solo per essere protetto da una storia, per scivolare in una storia e non essere più riconoscibile, controllabile, ricattabile.”
(Fabrizio De André)
Queste sono due tra le risposte migliori ad una domanda che non dovrebbe nemmeno esistere. La gente dovrebbe leggere, per imparare a parlare, per apprendere delle nozioni ma, soprattutto, perché leggere è divertente tanto quanto lo è scrivere. Con questo scopo, la gente, dovrebbe scrivere. Forse, sono troppo personale in questa affermazione ma, no, non sono l’unica a pensarla così o, almeno, mi piace crederci.

La scrittura, come forma di espressione, ha inizio nella Bassa Mesopotamia, era circa il 3200 a.C., tanto per dare una connotazione storica dell’importanza di un gesto semplice ma complesso come scrivere, appunto. Nella sua evoluzione prende differenti definizioni ed esplicazioni, non è solo un effetto grafico, un grafema, la parola scritta è un suono, porta con sé dei fonemi che rimbombano nella testa di chi legge, è una musica continua, capace di raccontare, senza una voce narrante fisica ma psicologica: la nostra mente, è lei a leggerci una storia, noi ascoltiamo, osserviamo con l’immaginazione. L’arte di saper scrivere è proprio questo: permetterci di creare delle immagini visive attraverso le parole scritte, farci osservare nella mente dello scrittore mentre scrive. Un giro di parole con un significato importante, più nitida sarà una pagina scritta, più cadenzate saranno le parole, più semplice sarà appassionarsi ad una lettura. Si tratta di un’arte, non è da tutti ma è per tutti, bisognerebbe farne buon uso, quotidiano. Lettura e scrittura sono una cura ma viviamo in un mondo in cui la libertà di esprimersi viene boicottata dagli editori, dai proprietari dei giornali, dai direttori delle varie testate, tutti politicizzati, tutti alla ricerca di un pubblico da convincere di qualcosa. Orwell aveva ragione, d’altra parte è stato lungimirante rispetto a molte questioni, oggi, di dominio pubblico:
“Lo scrittore che accetta, in tutto o in parte, di seguire la disciplina di un partito politico è posto prima o dopo davanti all’alternativa: sottomettersi o tacere.”
(George Orwell, “Nel ventre della Balena”, 1940)
La stampa ha subito una notevole spinta verso il progresso grazie all’invenzione dei caratteri mobili di Johannes Gutenberg, nel 1455.

Questo meccanismo ha permesso di velocizzare la scrittura e di produrre un maggior numero di copie, di uno stesso prodotto, per iniziare una più vasta diffusione del sapere. Dobbiamo tener presente che, tra il 400 e il 500, non si viveva in un periodo semplice, la scalata sociale era impossibile e i detentori del potere, e del sapere, non avevano alcuna intenzione di regalare alla plebe la possibilità di emanciparsi. La lingua della cultura era il latino, il popolo parlava in volgare, gli si poteva raccontare qualsiasi fandonia senza il rischio che potessero scovare la verità. Oggi la situazione è ben diversa ma resta un fatto: la maggioranza non sa leggere o, per lo meno, conosce le lettere e riesce a emettere dei suoni, per lo più gutturali, senza capire un accidente di ciò che trova scritto sui giornali e in alcuni libri di storia. La storia, già, fonte essenziale della vita dell’uomo, in quanti possono dire di conoscerla? Preferisco non rispondere, avvierei, però, una campagna marketing capace di rendere POP la cultura, e l’arte, piuttosto di alcuni spettacoli televisivi raccapriccianti. “Non è mai troppo tardi. Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta”, programma televisivo prodotto dalla RAI, tra il 1960 e il 1968, condotto da Alberto Manzi e curato da Oreste Gasperini, Alberto Manzi e Carlo Piantoni, aveva un senso, non dico che, oggi, avrebbe lo stesso significato, dico solo che, forse, sarebbe meglio fare più cultura, in televisione, e meno spazzatura, giusto per renderci meno sciocchi e più edotti. Se vogliamo dirla tutta, forse, a qualcuno un ripassino generale servirebbe, eccome.

Nel 1864, Peter Mitterhofer inventa la prima macchina per scrivere, una rivoluzione epocale, l’anticipazione del Commodor 64, arriverà un centinaio d’anni più avanti, commercializzato tra il 1982 e il 1994. Queste, sì, sono state grandi invenzioni, grandi semplificazioni per gli amanti della scrittura e della lettura. Un tempo, senza internet, l’unico modo di restare al passo con i tempi era leggere i quotidiani, trovare interesse nelle notizie di giornata, discuterne tra amici, tra colleghi. Questo generava la possibilità di un dialogo, permetteva di stabilire dei rapporti, creava un dibattito e metteva la gente nella condizione di desiderare la conoscenza, per potersi rendere interessanti, per potersi inserire negli ambienti desiderati mostrando una certa padronanza, in riferimento alla cultura moderna e contemporanea dell’epoca. Oggi, nonostante non sia passato poi così tanto tempo, non è più così, ovviamente se escludiamo i discorsi calcistici e il gossip, non mi sento di inserire né l’uno né l’altro all’interno del mondo culturale.

La massima espressione possibile, attraverso l’utilizzo di una tastiera, è la scrittura creativa. Si tratta dell’invenzione, vera e propria, di una storia, di un romanzo, di un soggetto che abbia un capo e una coda, un incipit piacevole e accattivante, un excipit spiazzante, illuminante, una trama che ci permetta di sognare, ad occhi aperti, grazie a quella voce narrante che legge nella nostra mente, lasciandoci tutto il tempo necessario per assaporare i rumori, i sapori, gli odori, i panorami presenti, proprio, in quel libro, proprio in quella storia. Trovate spazio per leggere, trovate un momento per riprendere in mano un vecchio libro, spolverarlo, aprirlo e iniziare piano, parola dopo parola, vi accorgerete che non ci sono attimi meglio spesi di quelli impiegati sfogliando pagine intrise di passione.
“La libertà intellettuale è una tradizione profondamente radicata, senza la quale è improbabile che esisterebbe la nostra cultura specificatamente occidentale. È una tradizione alla quale molti dei nostri intellettuali stanno visibilmente voltando le spalle.”
(George Orwell, “Libertà di Stampa”, 1945)
La libertà intellettuale, di cui parla Orwell, è qualcosa di radicato nello spirito umano, è viva, per mantenerla in vita, però, serve caparbietà, serve studio, disciplina, servono anni di esercitazione, serve esperienza, serve non cadere mai nell’inghippo, psicologico, di credersi migliori rispetto agli altri. Umiltà, prima di tutto, condita da tanti interessi e tanta voglia di raggiungere i propri obiettivi, mirando, sempre, ai massimi livelli.
Arianna Forni

Bravissima!!!
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