“Comunque, è sempre infinitamente più difficile essere semplici che essere complicati.”
(Giovannino Guareschi, da “Chi Sogna Nuovi Gerani?”, Rizzoli 1993)
Ritorniamo al concetto di semplicità, di bellezza, di complicazioni indesiderate, di diffidenza, di difficoltà inaspettate, poi, un attimo dopo, ci fermiamo, sì, come davanti al mare, come davanti alle montagne, come davanti ad un fuoco acceso o ad una margherita chiusa nel suo, aureo, riposo. Ci fermiamo per assaporare l’attimo, il secondo, l’istante, assaporarlo fino all’ultima goccia, non vorremmo perderne nemmeno una briciola, noi voglia tutto, desideriamo tutto e possiamo avere tutto. Per fare questo dobbiamo imparare ad essere semplici, esprimersi in modo semplice, camminare in modo semplice, mangiare in modo semplice, studiare in modo semplice; semplice, ho detto, non in modalità ridotta o limitata. Semplice, ovvero – ecco venirci in aiuto il caro vocabolario Treccani:
“sémplice1 (ant. sìmplice) agg. [lat. sĭmplex sĭmplĭcis, comp. della radice *sem- «uno, uno solo» (cfr. semel) e di una radice *plek- presente in plectĕre «allacciare», plicare «piegare» (cfr. duplice, triplice, … molteplice)]. – 1. Che è costituito di un solo elemento e non può risolversi perciò in ulteriori componenti […]”
La spiegazione è troppo lunga e, perdonatemi, inutile, il significato di semplice dovrebbe essere chiaro, ciò che non sembra chiaro, qui ci troviamo in difficoltà, è che semplice non è un sinonimo di facile o, per lo meno, non lo è sempre. Facile è qualcosa alla portata di tutti, semplice è qualcosa alla portata di tutti coloro che hanno una predisposizione per mettersi di buona lena, “allacciare” le cinture per spingersi oltre il primo step: l’inizio.

Una margherita recisa resterà una margherita per troppo poco tempo, lo stesso fiore, in un campo, resterà un fiore per tutta la durata della sua vita, con tutte le sue caratteristiche, con tutte le sue diversità, con tutti i suoi, naturali, movimenti. Questa ragazza, stupenda nei dettagli e nei colori, sta giocando con la vita di quei fiori, forse, per scoprire se quel m’ama non m’ama possa regalarle una speranza in più o toglierle, anche, le poche rimaste. Bisognerebbe riflettere bene. Di cosa abbiamo bisogno per trovare le nostre certezza? Di un fiore reciso e dei suoi petali? Oppure potrebbe bastare la nostra, grande, essenza umana?

Bisogna abituarsi ad avere davanti qualcosa di conosciuto che continuerà a cambiare, ogni frazione di secondo determinerà un mutamento della cosa a noi più nota. Si tratta del tempo, scorre, avanza, non perdona, non aspetta, come il mare, come la natura, niente ci aspetta, dobbiamo correre, non rincorrere, correre per restare al passo con i tempi, al passo con i nostri sogni, i nostri desideri. Dobbiamo, beh, volerci bene, come prima cosa, ma, soprattutto, voler bene all’arte, imparare a comprenderla perché lei, sola, potrà insegnarci parecchie cose, tra le quali il rispetto. Un rispetto reciproco che si crea tra l’opera e chi la osserva, tra l’artista e la sua tela, tra i curatori delle mostre e quel pubblico di curiosi o di veri conoscitori dell’arte. Arte, arte, tutto è arte. Ormai qualsiasi cosa si possa osservare ha la facoltà di trasformarsi in arte, qualcuno appoggia un bicchiere su un tavolo, lo fotografa e, bang, è l’opera più costosa e richiesta dell’anno. Bisognerebbe essere seri e riconoscere cosa sia, davvero, parte di un’arte seria, costruttiva. Ciò che ho visto a Fuerteventura era arte, naturale, questo è certo, spesso, però, la natura sa fare arte molto meglio dell’uomo e questo va riconosciuto, introspettivamente, assimilato.

Di queste cose ne abbiamo già parlato eppure credo che si potrebbe continuare a discernere, riguardo a questo argomento, all’infinito. D’altra parte, è arte. Poi, però, si potrebbe andare, un filino, oltre e guardare questo:

Appartiene ad un artista locale, molto simile alle fotografie che avete visto nel mio articolo “Un viaggio per nascere ancora”, eppure non è una fotografia, è un olio su tela, è l’arte di un pittore per il quale quella bahia ha qualcosa di speciale, forse ancora di più in confronto a quello che ha significato per me. Ognuno fa dell’arte ciò che vuole, questo è il rispetto, la comprensione verso un’opera e chi l’ha fatta, questo è saper riconoscere il buono, e il sentimento, stante nel cuore di ognuno di noi. Non tutti siamo pittori, non tutti siamo scrittori ma tutti siamo opere d’arte, se solo lo volessimo, con tutto il nostro cuore. Ho già parlato di cosa sia l’arte: tutto. Ormai l’arte contemporanea è tecnologia, velocità, futuro; è una derivazione del futurismo, siamo noi. Partire da una base storica ci ha permesso di proseguire in un futuro, il nostro tempo, in cui tutto è possibile, o almeno così ci appare. Tra non molto le cose cambieranno, ancora, e tutto quello di cui vi ho parlato fino ad oggi non avrà più significato, se non storico, perché la tecnologia, appunto, ci avrà spinti in un tempo nuovo, diverso. Non sappiamo cosa sia meglio o peggio, se restare o avanzare:
“Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, e non sa quel che trova”
In pochi sanno la derivazione di questa frase. Si tratta di un titolo di una commedia di Giuseppe Giacosa, scritta a Torino nel 1870. Il significato, però, è molto chiaro: l’immobilismo come fonte di salvezza. Un errore epocale che molti di noi continuano a commettere. Bisogna andare avanti, guardare avanti e seguire la propria strada, con fiducia, con sicurezza, con determinazione e tutta la forza, la calma, possibile.

“Abituarsi alla diversità dei normali è più difficile che abituarsi alla diversità dei diversi.”
(Giuseppe Pontiggia, “Prima persona”, 2002)
La diversità è un altro tema arduo, difficile da affrontare, ognuno ha le sue idee ma sono, pur sempre, parte integrante dell’arte. Alcuni artisti, soprattutto contemporanei, forse, coinvolti dalla crisi che ci accomuna e dalla multi etnia cosmica, sulla quale non mi pronuncio, hanno scelto questo tema per confrontarsi con la loro stessa idea di diverso, Andrea Benetti, ad esempio, guarda il mondo in questo modo:

Divide la scena, corrode l’idea di pluralità, denota una netta divisione tra il bianco e il nero, costruendo due cosmi ben distinti tra loro, non si toccano, si sfiorano senza intaccarne lo spazio, senza molestare il tempo, senza aggressione. Una convivenza pacifica ma apatica, amorale, se proprio vogliamo trovare un termine più specifico, eppure, coinvolge molti pensieri, non tutti, questo è certo, ma molti, già. Proprio su questo dovremmo farci delle domande. Sopra a tutte una: cosa è diverso? Cosa è bene e cosa è male? Bisognerebbe capire come comprenderlo e, allora, forse, potremmo rispondere. Benetti ci mostra un mondo in cui ognuno cura, bada, e si occupa del suo cosmo, micro o macro che sia, pur non irrompendo in quello altrui. Non è convivere ma non è, nemmeno, uccidere. Diversamente Augusto Daolio, rappresenta una diversità amichevole, compatta:

Due mani grandi che si aiutano, due mani fatte di natura, tratte dal tronco di un albero che cerca di restare avvinghiato alla vita. Ci riesce, vive, perché ha un’altra mano in suo aiuto, ha delle radici solide e dei rami rigogliosi. Aiutarsi potrebbe essere un sistema per dare equità, ad un mondo di disperati alla ricerca di una sistemazione, ma non è così che possiamo raddrizzare le cose, no. Dobbiamo avere cura di noi stessi e di chi ci sta accanto, solo così avremo delle certezze, la sicurezza di sapere cosa stiamo facendo, per chi e per cosa. Siamo onesti: ognuno di noi pensa a sé stesso, ciò non significa essere egoisti, significa conoscere il proprio cuore, conoscere le proprie necessità e provare a mantenersi in equilibrio sul proprio filo, sottile. Attenzione, però, a non cadere nel consueto sistema dettato dal nichilismo filosofico, ovvero, annientare sé stessi perché vittime di qualcosa di superiore a cui non possiamo, o non vogliamo, far fronte. Il nichilismo è una rassegnazione, una disperazione interiore che ci fa vivere nel male ciò che potremmo, e dovremmo, vivere bene. Non siamo “Me misero, Me tapino”, come userebbe dire Paperon de’ Paperoni in una delle sue vignette satiriche:

Essere semplici significa apprendere cosa siano le diversità e quali siano, per noi, accettabili. Semplice significa mettersi nelle condizioni di sapere, sempre, come comportarsi. Semplice significa, esattamente, fare le cose in modo semplice, scrivere in modo semplice e porsi in modo, altrettanto, semplice:
“Chi ha da dire qualcosa di nuovo e di importante ci tiene a farsi capire. Farà perciò tutto il possibile per scrivere in modo semplice e comprensibile. Niente è più facile dello scrivere difficile.”
(Karl Popper)
Quando scegliamo una strada da percorrere in auto, guardiamo attentamente la mappa, ragioniamo sul percorso, ci indirizziamo verso la più confortevole, la più rapida, la più adatta alle nostre capacità di guida, la più giusta per noi, ecco, iniziamo a fare la stessa cosa anche quando decidiamo di intraprendere qualsiasi altro percorso.
“Equilibrio non è la posizione di un uomo seduto pacatamente su una poltrona. Il vero equilibrio è quello del cavaliere sul suo cavallo, mentre realizza con la massima intensità tutte le sue potenzialità.”
(Plinio Corrêa de Oliveira)
Arianna Forni
