“E’ importante non allontanarsi troppo da noi stessi”
(Antonio Possenti, 1933-2016)
Abbiamo riscontrato una contemporaneità variegata ma, estremamente, POP, popolare, commerciale. Come la musica anche l’arte, purtroppo, ha dato, in quest’ultimo periodo dove il digital marketing fa da padrone, più importanza al concetto di vendita che alla produzione, alla realizzazione tecnica, fisica e pratica di un’opera. Oggi vorrei parlarvi di qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo, inserito nel nostro contesto di crisi quotidiana, in un ambiente aberrante, costretto a vivere di drammi, di spettacolarizzazione delle notizie più terrificanti, spaventose. Un ambiente che preferisce mostrarci il sangue, le lacrime piuttosto del bello, dell’introspezione di cuori limpidi, sebbene avvolti da un alone di tristezza dovuto alla vita stessa. Non sempre abbiamo la fortuna di trascorrere periodi felici, non è sempre facile avere l’equilibrio e la sensibilità per sentirci liberi, nel corpo, nello spirito e nello spazio. Da soli siamo persi, in compagnia siamo costretti alla recita, ad un sorriso forzato, tra i nostri affetti, invece, siamo, finalmente, noi stessi, possiamo esprimerci ma, tristemente, quell’espressione sentimentale non è sempre delle migliori, abbiamo bisogno di sfogare le nostre repressioni, le sofferenze che la vita ci ha riservato. Eppure, possiamo farlo con amore, con gioia, con acuta capacità di raccontare delle fiabe esorcizzanti un dolore troppo grande per essere raccontato, fino alla fine. Il dolore si vede negli occhi di molte persone, che ridono, che sorridono, che giocano per dimenticare, per allontanarsi da un male, impossibile da dimenticare. Abbiamo bisogno di aiuto, spesso, abbiamo bisogno di sentirci protetti, altrettanto spesso. Ognuno di noi possiede un suo status, un suo habitat naturale, un suo stesso luogo interiore attraverso il quale scovare un meccanismo di espressività, di gioia, per esorcizzare un dolore personale. Gli altri non capiranno mai, non è una mancanza, è una realtà, ognuno ha in sé e per sé le proprie angosce, ognuno le esterne e le esorcizza come meglio crede. Antonio Possenti, laureato in giurisprudenza, nato a Lucca e trasferito a Livorno lo fa dipingendo, lo fa nella speranza di scordare qualcosa di terribile, lo fa per sé stesso non per gli altri, per cercare, per ritrovare quel figlio annegato nel Mar Ligure e mai più riemerso da quel fondale maledetto. Era il Giugno del 1974, era un Giugno estivo in cui il gioco sarebbe dovuto essere il centro di una vacanza in famiglia, trasformato in dramma, in dolore, mai superato, mai assimilato ma condiviso, con altri due figli, Maria e Giovanni, e con la moglie. Un tumulto interiore sfogato nella pittura. Possenti ha saputo somatizzare un male infinito in opere dalla disarmante bellezza, poetiche, a volte ripetitive nei soggetti, nel suo autoritratto sempre presente, dolorose ma gioiose, proprio come quel figlio, scomparso, eppure vivo nel suo stesso cuore pulsante, vivo tuttora che anche il suo cuore si è spento, lasciando un vuoto incolmabile, in Terra, colmato, per lui stesso, dal ricongiungimento con quel primogenito, lassù, nell’Alto dei Cieli, seduti l’uno accanto all’altro, in un sonno fatto di stelle cadenti, di natura, di pesci addomesticati, di tartarughe e di colori sgargianti. Sarebbe bello potergli parlare adesso, sarebbe bello sentire da lui parole di conforto e di gioia per quei quadri, stupendi, ancora vivi, vivi in eterno, vivi per noi che amiamo le sue opere; vivi, e basta.

Il Professore Giovanni Faccenda, durante la presentazione di questo grande artista, il 18 Agosto 2018, presso la Galleria d’Arte Orler a Madonna di Campiglio, a lui molto caro, ha raccontato parecchi aneddoti, ha narrato la sua vita, il protagonismo di un uomo dalla cultura immensa, soggiogato da un dolore senza fine, esternato attraverso delle opere dall’incredibile forza emotiva. Commoventi. La sua opera precedente il Giugno del 1974 ha un sapore molto più scarno, l’uso dei colori è spento, quasi senza una reale emotività, quasi come esercizio stilistico, come virtuosismo, come modus per scaricare le tensioni del lavoro, dello studio. Un uomo che, negli anni Cinquanta del Novecento ha attraversato l’Europa in autostop per vivere le emozioni, vere, di un mondo, all’epoca, in ascesa e poi degradato, distrutto da quelle tre S (sangue, sesso, soldi), basi fondamentali del giornalismo odierno. Un viaggio in cui ha avuto l’occasione di incontrare e confrontarsi con Marc Chagall e di cui, a dimostrazione della sua grande umiltà, non ha mai fatto pubblicità, traendo, però, molti insegnamenti, scambiando alcune lettere, parlando molto di arte, di pittura, di studi accademici, di espressione della propria più intima sensibilità personale. Già Chagall:

Spettacolarizzazione del dolore, proprio come Degas, nell’Assenzio, come Turner, nell’Incendio al Palazzo del Parlamento, siamo un popolo che stenta a vedere il bello, stenta a guardare il Cielo, le stelle, l’immensità di un universo naturale che può dare e togliere, con consapevolezza sia nella gioia che nel dolore, straziante.

Vorrei mostrarvi la differenza, visibile agli occhi di tutti, tra un primo Possenti e queste ultime opere, apparentemente allegre, ricche di sofferenza, di un’angoscia profonda che non lo abbandonerà mai, per tutto il corso della sua vita.

Un disegno semplice, confusionario, colori tenui, mescolati senza grande maestria, post impressionista ma statico nella sua fermezza, in quegli occhi fissi, in quella lunga barba che ricorda un uomo buono, sorridente, che accudisce un piccolo animale, immerso nella natura, avvolto dalla pace, la stessa pace che porta nel cuore, fino a quel giorno, fino al Giugno del 1974.

Lo trovo paragonabile al concetto di Sindrome di Stendhal, proprio come ha citato il Professore Giovanni Faccenda, anche detta Sindrome di Firenze, quel momento in cui, guardando un’opera, appare talmente grande la commozione, la comprensione, da sentirsi mancare, da svenire di fronte alla grandezza di un sentimento dipinto, raccontato attraverso una grande opera, grande nel contenuto, nel concetto, nel suo insieme, non nelle sue dimensioni. Provo questo sentimento in alcuni passi della Divina Commedia, nel Canto XVII del Paradiso, a me tanto caro:
“e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico”
Ecco, è proprio questo. Antonio Possenti continuerà a vivere tra di noi, continuerà a raccontarci le sue storie attraverso queste opere meravigliose, strazianti, struggenti, conoscendo la sua storia, ma, altrettanto, illuminanti, dolci, delicate. Sono favole su tela, favole belle:
“su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,”
(Gabriele D’Annunzio, “La pioggia nel Pineto”, Alcyone, 1903)
Come potete vedere, attraverso il percorso che stiamo affrontando insieme, niente cambia. Cambiano i tempi, cambiano le tecnologie, cambiano le epoche, cambiano le persone ma non cambiano i sentimenti, non cambia la sofferenza, non cambia la nostra grande introspezione emotiva. Cambiamo noi, sulla base delle nostre esperienze. C’è chi si esprime scrivendo, chi lo fa dipingendo, chi scolpisce, chi legge, chi osserva, chi credo di bastare a sé stesso ma sa benissimo di avere bisogno di altro. Allora mi ricollego a Roberto Cuoghi, alla sua installazione alla Biennale 74 di Venezia, 2017, siamo un popolo dissacrante, stiamo distruggendo le nostre origini, la nostra cultura, anche quella religiosa, stiamo schiodando dalla Croce Chi ci ha salvato tante volte. Ci ha lasciato l’arte, non trasformiamola in mero marketing mediatico e digitale, guardiamo le opere e accresciamo il nostro Io, il nostro ego, comprendiamo e saremo, per forza, persone migliori.
Arianna Forni
