“Ramsey: Colonnello Von Luger, lei sa che è dovere di tutti gli ufficiali tentare la fuga. Se ciò è impossibile è comunque loro dovere costringere il nemico ad impegnare molte truppe per tenerli a bada, cercando soprattutto di logorarne i mezzi in ogni modo possibile.”
(La Grande Fuga, film USA del 1963, con Steve McQueen)
Si può scappare, fuggire, nascondersi, obiettare alla propria esistenza, all’essenza del proprio essere, all’alienazione dell’io, in grado di contraddistinguerci, renderci unici. Si può sparire per la vergogna, per limitare un dolore, per trovare equilibrio. Si può, certo, ma non porta a niente, a meno che non si tratti di un film, di una gag, di un’azione sbagliata a cui porre, irrimediabile, rimedio. Nella testa di molti potrebbe riecheggiare una citazione famosa, quasi sacra, pronunciata prima ancora della venuta di Cristo. Una battuta agghiacciante, vera, sincera, profonda, nel suo aberrante realismo cosmico, di un uomo vile, meschino nello schivare un pericolo, crogiolandosi nella convinzione di poter essere utile altrove, sicuro di avere qualcosa da dare ma non lì, non in quel momento. Un vigliacco, forse, un saggio, sicuramente. Si vedrà:
“Chi fugge dalla battaglia può combattere un’altra volta.”
(Demostene)
Paura, terrore, preservare sé stessi per vivere, ancora. Fuggire sperando di non essere visti. Salvarsi la pelle grazie ad una immatura giustificazione: preservarsi per situazioni peggiori. Lottare è l’unico modo per vincere le proprie ansie e affermare sé stessi, chi scappa non si impone, scappa, e basta.
“Se sono libero è perché sono sempre in fuga.”
(Jimi Hendrix)

L’escamotage della fuga, dell’evasione, viene utilizzato, all’interno del film con lo scopo di raccontare una destabilizzazione generale di chi crede di avere in pugno la situazione, in questo caso i tedeschi, la Gestapo. Durante la Seconda Guerra Mondiale, per lo scioglimento del soggetto de “La Grande Fuga”, i prigionieri più irrequieti furono spostati in quella che sarebbe dovuta essere una prigione di massima sicurezza, inespugnabile e, soprattutto, blindata ad ogni tentativo di fuga. Un soggetto, però, deve avere sempre, a suo vantaggio, una chance, creata e costruita dal caposquadra Roger Bartlett, in codice X1, ideatore di un metodo, infallibile, forse, per permettere a circa duecentocinquanta prigionieri di scappare attraverso tre tunnel, scavati meticolosamente, con grande attenzione, addirittura denominati con nomi propri: Tom, Dick e Harry. In seguito a molte peripezie resta solo un tunnel a disposizione per il tentativo di evasione; ci provano in settantasei, molti restano uccisi, altri vengono riportati nel campo di concentramento, qualcuno riesce ad avvicinarsi al confine con la Svizzera, tra cui Steve McQueen in sella alla Royal Enfield. Una scena epocale, tra salti e acrobazie mai visti, in un film, fino a quel momento. Non importa che quella grande fuga non possa portare a termine il suo scopo, non importa che in molti muoiano in quel tentativo, non importa perché quello che conta davvero è la speranza. Una speranza profonda di quei prigionieri destinati a morte certa, convinti di potersi salvare, capaci di trovare la forza di credere in un’evasione in grado di riportarli alla vita, alla libertà. Questo è il senso del film, questo è il senso di questa motocicletta, arte di un’arte cinematografica in grande evoluzione, era solo il 1963.

Guardiamo ad oggi, a ciò che siamo, a ciò che vorremmo essere, al nostro desiderio di fuga dai problemi, dalla crisi, da una politica che non ci soddisfa, che ci fa sentire prigionieri del nostro stesso Paese, del nostro continente Europeo. Guardiamo a noi. Vorremmo scappare. Dove? Perché? Forse, è solo la speranza, capace di dare credito ai nostri sogni, capace di spingerci verso il domani, accompagnati da noi stessi e dai nostri cari. Accompagnati dalla convinzione di poter trovare:
“Una terra promessa
Un mondo diverso
Dove crescere i nostri pensieri
Noi non ci fermeremo
Non ci stancheremo di cercare
Il nostro cammino”
(Eros Ramazzotti, “Terra Promessa”, 1984)
Pazzi, forse, saggi, forse, incredibilmente vivi, umani, uomini, espressione univoca di sé stessi, nonostante il mondo attorno a noi abbia l’innegabile capacità di frenare i nostri impulsi vitali, la nostra fantasia, i nostri sogni. Siamo vivi, viviamo. Scappiamo dal male per cercare il bene.

“Per lo più precipita nel suo destino chi fugge.”
(Tito Livio, Proemio, Libro X)
Tito Livio la pensa in modo, leggermente, differente, colloca la psicologia di chi fugge in un contesto di abominio infernale, nel precipizio dell’ecatombe di chi non vuol vedere, di chi scappa e rifugge il male. Non sono, totalmente, in accordo. L’Arte insegna: chi fugge lo fa per evasione, psicologica, sensoriale, laddove evadere significa allontanarsi dai propri problemi quotidiani, liberare la mente, aprire lo sguardo, guardare altrove, guardare il bello nel brutto, osservare la bontà nel male. In questo concetto mi viene in aiuto Paola Romano e le sue lune:

Le sue lune sono la creazione di un sentimento introspettivo profondo, la ricerca costante del vivere umano, del perché alle domande esistenziali, del come si sia arrivati a tutto questo, alla crisi, all’alienazione. Possiamo schierarla tra gli artisti concettuali, coloro i quali, da una grande sofferenza, riescono a produrre qualcosa di bello, qualcosa di materiale, capace di lasciare gli sguardi attoniti, ammutoliti, come se ci trovassimo insieme a Napoleone, in quel 5 maggio, di Manzoni, scritta nel 1821:
“Ei fu. Siccome immobile,
Dato il mortal sospiro,
Stette la spoglia immemore
Orba di tanto spiro,
Così percossa, attonita
La terra al nunzio sta,
Muta pensando all’ultima
Ora dell’uom fatale;
Nè sa quando una simile
Orma di piè mortale
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.”
Questa è la difficoltà della vita, l’insicurezza per avere delle certezze, senza avere mai quella concreta determinazione in un domani oscurato dai nostri stessi occhi, opacizzato nella meta da raggiungere. Il viaggio è lungo, la destinazione è sempre incerta. Possiamo essere gli individui più razionali e determinati al mondo, niente e nessuno potrà dirci cosa, realmente, ci aspetta. Perché scappare quando si può, solo, continuare il viaggio? La Romano sa rispondere ad alcune di queste richieste esistenziali attraverso un’arte profonda, attraverso queste lune colorate, attraverso la materia che spiega e racconta storie, per ognuno differenti. Ad ognuno la sua Luna, ad ognuno il suo immaginario. Ci rammentano la fuga, la grande fuga, allo stesso tempo, però, ci lasciano basiti, entusiasti, consci della nostra presenza nella cosmologia e nel tempo, in uno spazio che ci accoglie seppure, spesso, sappia rifiutarci. L’umanità è bella, è folle ma sa guardare al Cielo, quello che vede, a volte, è straordinario:

“La pazzia è come il paradiso. Quando arrivi al punto in cui non te ne frega più niente di quello che gli altri possono dire, sei vicino al cielo.”
(Jimi Hendrix)
Così vicini da voler fuggire ancora, ancora e ancora. Risaliamo in sella alla Royal Enfield, sentiamoci come Steve McQueen, chiudiamo gli occhi e andiamo avanti ricordandoci una cosa, sopra ogni altra, la speranza. Il nostro domani non dipende solo dal destino, dipende da quanto saremo in grado di cogliere, quel destino, per schizzare in avanti e costruire un futuro sempre più solido, sempre più stabile, sempre meno desideroso di fuggire, altrove.
Arianna Forni

Vidi questo film che ero adolescente, nel 1963. Ci piacevano gli eroi che non si piegano e lottano fino alla fine. I maschietti coltivano poche idee semplici ma ferme. Steve aveva recitato nei Magnifici 7. Mi ricordo anche ‘Per un dollaro d’onore’, Rio bravo in inglese. Di un giovane pistolero John Wayne disse le fatidiche parole (che entrarono nei nostro annali) :
“E’ talmente in gamba che non ha bisogno di dimostrarlo”.
Sorrido adesso, ma per noi era importante.
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