“Amore e ’l cor gentil sono una cosa,
sì come il saggio in suo dittare pone,
e così esser l’un sanza l’altro osa
com’alma razional sanza ragione.
Falli natura quand’è amorosa,
Amor per sire e ’l cor per sua magione,
dentro la qual dormendo si riposa
tal volta poca e tal lunga stagione.
Bieltate appare in saggia donna pui,
che piace a gli occhi sì, che dentro al core
nasce un disio de la cosa piacente;
e tanto dura talora in costui,
che fa svegliar lo spirito d’Amore.
E simil face in donna omo valente.”
(Dante Alighieri, “Vita Nova”, XX, 1295)
Un mondo in crisi, marcio, svilito, svilente, ateo, solitario, economicamente allo sfascio e spiritualmente all’Inferno. Bisogna fare qualcosa. Mi sono tornati in mente in grandi poeti del passato, di quel XIII secolo in cui, nonostante tutto, erano proprio i sentimenti e le anime a governare i cuori gentili, i sapienti, i saggi, gli studiosi, i poeti, gli artisti. Per essere parte dell’arte è indispensabile conoscere sé stessi, conoscere le proprie debolezze e la propria forza, conoscere i propri punti deboli e riconoscere l’amore. D’altra parte per cosa siamo al mondo se non per amare? Amare le nostre famiglie, amare noi stessi, amare gli amici, amare una persona che resti al nostro fianco, sì, nel bene, ma altrettanto nel male, soprattutto nel male. I perigli della vita, ahimè, sono superiori rispetto alle beltà ma dobbiamo essere in grado di farci guidare per riconoscere la meraviglia che ci circonda, per assecondare le nostre necessità attraverso dei compromessi di genere, per genere, in modo da dare ai nostri cari la chance di starci vicini e di sentirsi utili nei nostri confronti. La cosa peggiore è estraniarsi dal mondo e vivere in solitudine, chiudersi dietro uno scudo, una corazza spessa e indistruttibile, una coltre di ghiaccio che allontana, invece di avvicinare. Attenzione, però, a non far avvicinare le persone sbagliate, lo scudo serve sempre ma bisogna sapere quando alzarlo e quando, invece, sarebbe meglio appoggiarlo accanto a noi, liberarci di quel peso e condividere i nostri problemi, confrontarci, chiedere consigli, chiedere aiuto, se necessario. Parlo in senso generale, parlo di una società in cui tutti, proprio tutti, hanno questa strana necessità di mostrarsi forti, inamovibili, quasi supremi, intoccabili e inattaccabili. Lo facciamo per proteggerci, per tutelare il nostro inconscio, la nostra psiche ma poi non resta niente, solo la solitudine delle quattro mura di una casa vuota, senza dialogo, senza discussioni formative, senza affetto. Siamo diventati un popolo apatico, incapace di amare davvero, incapace di trasmettere partecipazione per le gioie degli altri e per i dolori. Esserci è qualcosa di fondamentale, esserci significa vivere, significa inserirsi in un contesto, il nostro. Qualcuno prende un animale, per sostituire le carenze umane, a volte chi cammina su quattro zampe ha più anima di molti uomini:

Eppure ci sono ancora persone sensibili, sono le più tartassate, le più buone, le più facili da perseguitare, mi chiedo il perché. Sarebbe così bello se fossimo tutti, davvero, consapevoli di condividere uno stesso pianeta, con le stesse sofferenze, con gli stessi problemi, con le stesse, umane, debolezze. Sarebbe così bello se ci accorgessimo della sofferenza di ognuno di noi e della bellezza che abbiamo nel cuore. Le anime sono belle, tutte, sono chiare, limpide, sincere, è l’uomo a trasformarsi in una bestia per scacciare il prossimo, per non vedere. Il paraocchi non serve, tutela, in parte, ma prima o poi dovremo toglierlo e saranno dolori, veri. Dobbiamo tornare indietro nel tempo, nel XIII secolo, quando il Dolce Stil Novo, definizione ideata da Dante Alighieri nel Canto XXIV del Purgatorio, in cui l’amore era padrone del mondo, in cui la donna meritava rispetto, non come oggi, a quel tempo gli occhi belli, di una donzella sperduta, sapevano suscitare poesie meravigliose perché:
“Al cor gentil rempaira sempre amore
come l’ausello in selva a la verdura;
né fe’ amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch’amor natura:
ch’adesso con’ fu’l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
né fu davanti ‘l sole;
e prende amore in gentilezza loco
così proprïamente
come calore in clarità di foco.”
(Guido Guinizzelli, “Al cor gentil rempaira sempre amore”, XIII sec.)
Al cuore gentile l’amore torna sempre, e sempre tornerà, perché un cuore gentile vive per l’amore, vive per la condivisione, vive per sapere dove sta andando e perché. Ormai siamo trincerati dietro il nostro lavoro, dietro velleità materiali, dietro delle apparenze inutili che, prima o poi, sfioriranno in un tempo breve o lungo ma, pur sempre, avranno un termine. Importa poco quanto la chirurgia plastica abbia fatto passi da gigante, non è la pelle tesa a fare la differenza, è il pulsare di un cuore vivo a rendere un individuo vivo, interessante, sincero, appassionato e coinvolgente. Non parlo solo di coppie, di amori adolescenziali, di farfalle nello stomaco, parlo di amore vero, nel senso di capacità sentimentale nel riconoscere le virtù degli altri. L’amore può tutto, può governare un Paese, può riportare la Pace, può far terminare le Guerre, può vedere ciò che molti non vedono. I grandi poeti del Dolce Stil Novo avevano occhi diversi rispetto ai nostri, sentivano il flusso del vento, lo scompiglio nei capelli, il fruscio delle foglie sui rami degli alberi, sentivano battere un anelito d’amore, di vero amore (Lucio Battisti, “Il mio canto libero”, 1972)
“Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena,
e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Philomena,
et primavera candida et vermiglia.
Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena;”
(Francesco Petrarca, “Zephiro torna”, da il Canzoniere, 1336-1374)

Questa non è solo una riflessione romantica, questa è una riflessione sociale, sociologica. L’amore impossibile, ma sincero, del Dolce Stil Novo rientra perfettamente nel concetto di solitudine moderna, di alienazione alla vita, di aberrazione di sé, di depressione dovuta ad una mancanza di compartecipazione. Basta poco, come dice Vasco, basta poco e basterebbe poco, non ci vorrebbe molto, solo aprire una porticina di anima e cuore in modo da lasciare entrare un po’ di luce per vedere ciò che Guido Cavalcanti aveva visto benissimo:
“Io vidi li occhi dove Amor si mise
quando mi fece di sé pauroso,
che mi guardâr com’ io fosse noioso:
allora dico che ’l cor si divise;
e se non fosse che la donna rise,
i’ parlerei di tal guisa doglioso,
ch’Amor medesmo ne farei cruccioso,
che fe’ lo immaginar che mi conquise.
Dal ciel si mosse un spirito, in quel punto
che quella donna mi degnò guardare,
e vennesi a posar nel mio pensero:
elli mi conta sì d’Amor lo vero,
che[d] ogni sua virtù veder mi pare
sì com’ io fosse nello suo cor giunto”
(Guido Cavalcanti, XXIII)

Mi capita di chiedermi dove siano finiti questi grandi poeti, questi grandi cuori gentili, poi, mi giro, osservo, cerco di capire e vedo qualcosa, poco, annebbiato, a volte mescolato nel mezzo dello sfacelo, dei drammi quotidiani, delle morti inutili, eppure qualcosa c’è, ancora, ed è da lì che dobbiamo ricominciare. Dobbiamo ricominciare dai bambini, dandogli famiglie unite, famiglie che sappiano sedersi ad un tavolo in pigiama per fare colazione, che sappiano guardarsi negli occhi e capirsi, anche senza parlare. Dobbiamo riportare il Dolce Stil Novo in mezzo a noi per riportare ordine. Abbiamo bisogno di ordine, tutti ne abbiamo bisogno, il mondo ne ha bisogno, la Terra stessa ce lo sta chiedendo ma, noi, ciechi, accecati dal business, dalle apparenze, non siamo capaci di vedere. Allora torniamo a studiare, a leggere, a guardare quello che la psicologia ci insegna. Basterebbe avere l’umiltà di confrontarci con noi stessi, solo dopo saremo in grado di andare nel mondo, quello vero, magari tenendo per mano la fiducia, la sicurezza, stringendo al petto la certezza di essere persone migliori, con un senso unico, univoco, d’amore, di vero amore:
“Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
‘Donne ch’avete intelletto d’amore’».
E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando».
«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo
che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!”
(Dante Alighieri, “Divina Commedia”, Purgatorio XXIV)
Da qui nasce il Dolce Stil Novo. Da qui dobbiamo ripartire. Dobbiamo ripartire da capo, il passato non si cancella ma si può, sempre, migliorare il futuro.
Arianna Forni
