“Critici si nasce, artisti si diventa e pubblico si muore.”
(Achille Bonito Oliva, critico d’arte, accademico, saggista, curatore e scrittore italiano)
Il problema nasce nel momento in cui si perde la netta distinzione tra queste tre figure, il critico si mischia con l’artista che diventa, altresì, pubblico di sé stesso e dei suoi competitors. L’amalgama rischia di creare una reazione chimica esplosiva. Non si può andare avanti così. Per riuscire ad entrare in questo meccanismo bisogna scendere, dal piedistallo della cultura, e immergersi nel mercato popolare, commerciale, POP, strettamente legato ad una economia spiccia del “finché vendo rendo, quando smetterò di vendere aprirò una gelateria”. Nessun artista vero, nel suo intimo, farebbe mai un discorso simile, eppure ce ne sono molti, sono quelli che, tendenzialmente, mi danno sui nervi, oltre a dare sui nervi ai critici professionali, legati ad una dottrina storica che nasce dall’arte delle catacombe e non dai palloncini di Jeff Koons. D’altra parte, come ci fa notare il Sole 24Ore, il caro Koons, ha venduto lotti per un totale di 402.151.440 dollari, chiamarlo artista commerciale è quasi riduttivo, ormai è un fenomeno di massa, il classico artista che spopola più per il suo personaggio che per la sua produzione. I “Balloon Dog” sono troppo kitsch per rientrare nella critica d’arte, questo è solo un mio modo di guardare le cose, ovvio, ed è lo stesso modo con cui guardo alla nostra politica: kitsch e commerciale, show business inutile ai fini governativi, tanto quanto i suoi palloncini. Mah. In ogni caso Koons si posiziona al secondo posto, tra gli artisti più venduti al mondo, al primo troviamo Gerhard Richter:

Avevo già avuto modo di parlarne, lo trovo, leggermente più intuitivo e introspettivo rispetto a Koons ma, pur sempre, POP e semplicistico. Appare chiaro che aggiudicarsi un Richter, al giorno d’oggi, pone i collezionisti su di un piano, di considerazione, di tutto rispetto, inserendosi, di buon grado, nell’élite dei grandi appassionati, di coloro che possono appendere al muro di ingresso delle proprie case un Richter, mostrato con orgoglio ai propri ospiti. Beh, non sono così tanti a poterselo permettere. Anzi. Tra il 2012 e il 2016 ha venduto opere per un totale di 1.032.158.191 dollari, proponendo sempre lo stesso genere di produzione, con quotazioni in rialzo esponenziale. D’altra parte, se funziona perché cambiare? Se osserviamo una sua opera antecedente questo periodo, però, possiamo riscontrare parecchie differenze stilistiche e tecniche. La fotografia non è più il centro focale dell’opera, sono i colori e la composizione di luce creata da essi, con essi. Personalmente preferisco il primo Richter all’ultimo ma, evidentemente, i collezionisti la pensano diversamente:

“È il pubblico là fuori che ti osanna o ti affonda. La priorità è il loro divertimento.”
(Andre Agassi, ex tennista USA)
Che si parli di spettacolo, teatro, cinema, televisione, di arte o di libri è sempre, e comunque, il pubblico a decidere cosa possa interessare o meno, non sono gli artisti, non sono i produttori, è sempre il fruitore ad avere la libera facoltà di scegliere. Il problema, sorto in questo periodo storico, è proprio la mancanza di sentimento personale nella produzione di un’opera, qualsiasi essa sia, ormai si crea per vendere, per guadagnare per fare business, a volte lo si fa per vivere, altre per accendere le luci della ribalta e firmare qualche autografo. Siamo alla canna del gas. Mancano i sentimenti, manca tutto. Manca lo spirito umano con cui dovremmo esprimerci, sempre. Sono così tanti gli artisti che vivono della loro arte, facendo dell’arte un brand tecnologico e sociale, dimenticando il sentimento con cui, i grandi del passato, esprimevano le proprie sensazioni, le proprie emozioni. Siamo apatici ma egocentrici, privi di cultura ma onnipotenti, insulsi ma dall’apparenza calamitante, tutti controsensi comprensibili sono nel nostro tempo, una volta, davanti a tutto questo, c’erano i valori, oggi restano ma cambiano delle lettere e si trasformano in valuta. Sento freddo, come nella battuta di Barbossa colpito da quell’unico colpo conservato, per anni, da Jack Sparrow, nella sua pistola. Avvicinare la parola arte a quella di mercato commerciale è come farsi colpire da un proiettile, si può solo sentire freddo. Eppure esiste qualche artista, in questa schiera di ricchi marketer e business man, ad avere, davvero, qualche dote in più, parlo, ad esempio, di Cui Ruzhuo, cinese, nato a Pechino, per l’esattezza:

Le sue opere sono creazioni di un mondo lontano, di un suo mondo personale e intimo, trasmettono pace ed è, forse, per questo, che attraggono, che si rendono popolari dall’altro capo del mondo. Non rinnego le sue capacità, mi piace molto, lo trovo espressivo e tecnicamente vicino alla dottrina artistica cinese, eppure rientra, a tutti gli effetti, nel marasma commerciale, con un fatturato che supera i 285.381.938 € per 317 lotti. Piace, attira, attiva lo spirito verso l’osservazione di qualcosa di nuovo, allora, sì, che possiamo parlare di arte. Non conta quanto si riesca a vendere, conta solo cosa si venda e perché. Ruzhuo vende per capacità, vende perché produce qualcosa di differente, vende qualcosa che, nel suo Paese, non avrà grande appeal ma nel resto del mondo sembra così lontano da voler entrare nelle sue opere per capirne di più, per sentire il freddo di quella Snowy Mountain dal tratto deciso, per immaginarsi quei villaggi isolati dove la quiete e la pace interiore dominano, dove, forse, si vive più sereni di quanto non si faccia dalle nostre parti. La calma, ecco il suo emblema vincente:

Poi? Poi abbiamo un’artista che ha scelto, spontaneamente, di vivere gli ultimi anni della sua vita in un manicomio. Chiaro: non è lei la pazza, sono pazzi i critici prezzolati che hanno portato le sue quotazioni a livelli stellari, coinvolgendo il pubblico di collezionisti e la stessa artista, già oppressa dalla sua mente, altresì, schiacciata dalla bramosia del brand a tutti i costi. Le sue opere sono la dimostrazione del suo caos interiore, dei mille colori della sua anima, del male di vivere, espresso nella gioia pittoresca di una fiaba per bambini, Yayoi Kusama:

Nel suo mondo colorato, di zucche, di righe, di foglie, di pois, di confusione visibile e invisibile, ha determinato un grande attaccamento, da parte dei collezionisti. Il Sole 24Ore ci conferma che tra il 2012 e il 2016 ha venduto per un totale di 203.234.263 dollari. Forse, non le è bastato per essere felice, forse, non si è mai sentita inserita nell’oscurità che aleggia su questa Terra, forse, pensa, ancora adesso, a 89 anni, di aver calcato, per tutta la durata della sua lunga vita, un suolo non di sua appartenenza. Piace, ad alcuni diverte, ad altri opprime, ma vende, eccome se vende. I soldi non sono mai stati il suo bene più importante, per lei conta l’anima e, la sua, vaga sperduta lungo strade che la vedono, sola, solo come un investimento. La felicità, però, per lei, deve essere ben altro:

“Il collezionismo è un habitus mentale che può appartenere indifferentemente a ottimi o pessimi soggetti. È sempre bene ricordare questo assunto per non incorrere nel più banale e fuorviante dei luoghi comuni ovvero considerare i collezionisti soltanto come gente antipatica, avida e narcisista.”
(Vittoria de Buzzaccarini, da “Zoologicamente parlando”, 2005, incipit)
Lei non avrebbe voluto entrare nelle case degli avidi e narcisisti, voleva solo esprimere il suo intimo e raccontare la sua storia, chissà cosa c’è in quella mente tanto colorata quanto oscura e misteriosa. Gli artisti sono questo, non sono certo come Koons che vive di denaro, di opere gigantesche, shocking, per far parlare di sé, prima della sua produzione. L’artista deve saper essere un artista, dovrebbe dimenticare le aste, Christie’s, Sothedy’s, la fama, la spettacolarizzazione; è difficile. L’apparenza, dicono, sappia ingannare, io credo, invece, che l’apparenza non possa ingannare, casomai può essere fuorviante ma non cambierà mai il nostro intimo, i nostri valori, sempre ammesso che ci siano, davvero. La verità risiede negli occhi di chi osserva, di chi assimila qualcosa, di chi accresce il proprio ego nell’introspezione emotiva di un’opera. I collezionisti sono altro, sono spesso persone avide, è proprio vero.
“La verità è che a furia di far collezioni, di cose, di piante, di tutto, si finisce a poco a poco col voler farle anche con le persone.”
(Giorgio Bassani, da “Il Giardino dei Finzi-Contini”, 1962)
Arianna Forni