“Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.”
(Genesi)
Questa è l’unica risposta che l’uomo, in modo mistico, plausibile, credibile e consolatorio, è riuscito a darsi sulla sua stessa creazione. L’uomo ha bisogno di credere in qualcosa, credere nella vita eterna, nella strada terrena e in quella celestiale, credere di non essere solo un animale dallo spiccato sviluppo cerebrale, ha bisogno di credere in sé stesso, come entità superiore, intellettiva, capace di badare al suo microcosmo, capace di essere solido, davanti agli inghippi di questa vita. Il fenomeno della creazione ha, soprattutto, una grande capacità di donare fiducia nel proprio egocentrismo cosmico, forza, equilibrio; è una storia che, come Babbo Natale per i bambini, serve a stabilizzare una razza, quella umana, per l’appunto. L’uomo è stato forgiato per essere uomo e, come dice Menandro:
“Com’è piacevole l’uomo, quando è uomo.”
(Menandro)
In realtà, però, vi sono molte altre spiegazioni, le più belle, le più complete, sono legate alla mitologia Greca, a Prometeo, in particolare. Prometeo, appartenente alla famiglia dei Titani, coloro che sfidarono Zeus, è, per la cultura della Grecia antica, l’unico creatore dell’umanità, plasmata per essere umana per essere, definitivamente:
“Al di sopra delle nazioni è l’umanità.”
(Johann Wolfgang von Goethe)

Sono favole belle, sono storie, che affascinano e danno un senso alla nostra stessa essenza, al nostro cammino, su questo pianeta terra, su questo suolo fatto di fango e, dal fango, appunto, siamo stati creati. Prometeo era il più saggio tra i Titani e, sebbene avesse un senso di appartenenza alla sua stessa famiglia, un patto di sangue con i suoi fratelli, non era capace di mostrare astio e cattiveria nei confronti del Padre degli Dei, di Zeus, superiore, potente, indistruttibile. Aveva, nei suoi confronti un senso di rispetto misto a pietà, una devozione profonda, non avrebbe mai potuto cercare di fargli del male. Il suo stesso nome, Prometeo, significa, letteralmente, colui che è capace di prevedere, aveva già visto cosa sarebbe successo, aveva già visto il dolore, il sangue versato, la sofferenza, avrebbe voluto evitare tutto questo ma non gli fu possibile placare l’ira della sua stirpe. Accanto a lui aveva il fratello Epimeteo, colui che comprende in ritardo, il suo opposto, l’opposto che non sa controllarsi, che non ha la lungimiranza sufficiente a capire come comportarsi e quando. La situazione precipitò con la morte di tutti i suoi fratelli e con la sua salvezza. Zeus lo risparmiò proprio per questo suo senso di bontà, di intelligenza superiore e gli diede il compito di forgiare l’essere umano. Nonostante le lacrime versate sui corpi, esanimi, dei suoi fratelli rimase fedele a sé stesso, al senso di conoscenza, all’attaccamento verso chi gli risparmiò la vita grazie alla sua superiorità intellettiva. La riconoscenza è un valore, un bene da coltivare, forse, anche nel nostro mondo attuale, in questo marasma di indefessi cultori dell’ego, sminuiti e sotterrati sotto il proprio stesso peso corporeo. Bisogna essere saggi, bisogna sapere bene dove andare, il futuro è uno, basta sbagliare una volta per compromettere il nostro domani. Il futuro, lo dico speso, è il risultato del nostro passato, agire istintivamente, senza attenzione, senza cura verso i particolari può portarci solo verso la distruzione. Stiamo attenti, controlliamoci, impariamo dall’Arte.
“Il cammino d’un uomo è comprensione dell’amore. Una cosa fragilissima, altro che mettersi sotto un ombrello.”
(Susanna Tamaro)

Prometeo è stato il portatore sano della lungimiranza, suo fratello, invece, ha saputo solo andare incontro ad un destino crudele, beffardo, logico, volendo guardare le cose da un punto di vista distaccato, eppure, altrettanto, inaspettato da quell’interiorità terrificante, fatta di bramosia, di ardente desiderio di primeggiare, spodestando il padre degli Dei, l’inattaccabile, anche uno sciocco avrebbe capito ma i Titani erano troppo egocentrici, accecati dalla loro forza, dalla loro, inesauribile quanto immatura, voglia di comandare il mondo. Uno solo si è salvato, tra le sue stesse lacrime ha saputo guardare avanti ed è stato perdonato, accolto nell’Olimpo, gli è stato assegnato uno dei compiti più importanti: dare l’alito di vita all’uomo, creare una specie mortale, darci la vita. I Greci avevano una capacità a noi, quasi, sconosciuta, spiegare le cose semplici o difficili, semplicemente, mostrando, attraverso le loro storie, i loro Miti, la morale dell’esistenza. In questo contesto la religione è irrilevante, la politica non intralcia l’andamento del racconto, è solo la mente a fare il suo corso, è solo l’intelletto acuto a carpire gli insegnamenti. Non so chi abbia capito e chi no, questo non ha importanza, ci sarà sempre un Prometeo e un Epimeteo, ci sarà sempre chi saprà dove sta andando e chi, al contrario, continuerà a camminare per inerzia, senza porsi domande, senza guardare cosa gli scorre accanto. La Creazione è un mistero, un mistero religioso, non solo Cristiano, è un mistero che accomuna i popoli. Da dove veniamo? Perché? Siamo così fragili, pur nella nostra saggezza, pur nell’ignoranza. Non conta il nostro posizionamento sociale, conta solo sapere che siamo proprio qui, in questo momento, il perché resta nell’aria, come un petalo di una rosa, spinto dal vento, chissà dove e chissà perché. A questo punto, nel Mito, Prometeo commetterà un errore e verrà punito, ma questo già lo sappiamo, lo stesso accadrà alla mortale Pandora, collegando, in modo ragionevole ma, altrettanto, immaturo, la saggezza all’irrevocabile senso istintivo che governa qualsiasi essere dotato di cervello, più o meno sviluppato. In questo caso, però, si parla solo di creazione. L’Arte della creazione, della produzione, della trasformazione, in fin dei conti, è esattamente lo stesso processo cognitivo che mettono in atto gli artisti quando danno vita alle loro opere. L’Arte nasce nella mente, si produce attraverso le mani, attraverso il corpo dell’artista, si esteriorizza in un oggetto, in una contestualizzazione sociale, andrà capito, analizzato, studiato, o, forse, solo interiorizzato in modo da fondersi con l’artista stesso. Sta a voi, sta a noi, sta alla nostra sensibilità, dobbiamo riscoprire il fanciullino e l’angelo, l’istinto irragionevole e la logica perseveranza, l’ingegno, l’astuzia miste alla voglia di preservarci provando l’impensabile, consci dei nostri limiti ma desiderosi di superarli. Ecco cos’è la creazione: è conoscenza, è il sapere supremo a cui dovremmo ambire, per il quale dovremmo vivere, ogni giorno, “sapendo di non sapere”, proprio come Socrate, sapendo di non avere la possibilità di conoscere tutto ma desiderosi di volerlo fare. Creazione, produzione, pubblico, investimenti, business, marketing, brand, lo vedete da soli, non servono spiegazioni, è un circolo vizioso che rovina l’essenza sensibile dell’Arte ma, al giorno d’oggi, concede la possibilità, ad alcuni, di apprezzare, di capire, di carpire, di assimilare e proiettarsi verso la propria creazione, partendo da un concetto semplice, microscopico, nell’entità della Terra terrena, avvolta nelle celestiali domande esistenziali: l’Arte.

Un Angelo bianco, candido, puro, in un cosmo colorato, indecifrabile, confuso seppure nel suo ordine. Ecco, noi siamo questo ma dobbiamo scegliere da che parte stare: siamo buoni o siamo cattivi, siamo studiosi o, semplici, arrivisti, siamo innamorati o opportunisti? Basterebbe fare una scelta definita e definitiva, forse, sarà proprio allora che scopriremo da dove veniamo. Chi ci può confermare che la creazione non sia partita proprio da noi, da una necessità cosmologica di sviluppo? Non lo sapremo mai eppure vorremmo saperlo, limitiamoci a lavorare su noi stessi e sul mantenimento dell’equilibrio di un mondo rotondo, sapendo che tutto ciò che è sferico difficilmente può non rotolare.
Arianna Forni
