“La perfezione è il più grave errore del burocrate e dell’uomo: la ricerca dell’equilibrio diventa fede in una verità dogmatica.”

(Angelo Fiore, da Un caso di Coscienza, Lerici, 1963)

Appare molto semplice affermare quanto sia impossibile la ricerca della perfezione, quanto sia utopico pensare di essere, di apparire, perfetti; oppure, anche, solamente, di trovare qualcosa che, vagamente, assomigli all’idealismo, generico, di quegli standard imposti da noi stessi. Beh, è proprio per questo che la perfezione non potrebbe mai esistere; l’uomo avrebbe codificato dei canoni di perfezione e l’uomo è imperfetto quindi perfetto è ciò che viene riconosciuto nel dogma utopico legato ad un pensiero, individuale, individualmente scorretto, sulla base di altri canoni. Siamo o non siamo animali? Siamo o non siamo socialmente condizionabili? Possiamo dire di essere perfetti? Possiamo riconoscere la perfezione? Alcuni la temono, si terrorizzano davanti ad un confronto, un paragone inesistente a cui, mai, potremmo, e potremo, essere adeguati. Siamo sbagliati, forse, o forse siamo solo uomini, belli perché universalmente diversi l’uno dall’altro, stupendi perché incapaci di essere adatti a tutti, l’uno per l’altro.

“Non aver paura della perfezione. Non la raggiungerai mai.”

(Salvador Dalí)

Salvador Dalì - da ilGerme
Salvador Dalì – da ilGerme

Per assicurarmi di affrontare questo discorso, nel migliore dei modi, mi trovo costretta a tirare in causa un grande artista, Salvador Dalì, vissuto tra il 1904 e il 1989, gli anni più floridi proprio per l’argomento perfezione, perfezionismo, superuomo, analisi umana dell’inconsistenza di un pensiero comune, di un equilibrio equilibrato nell’equilibrismo della vita moderna. Quegli anni sono stati il preludio dei nostri, l’apoteosi dell’iniziativa, spenta dall’ignoranza moderna, il plauso della conoscenza rispecchiato nell’incompetenza attuale. Eppure, nonostante tutto, nonostante il senso di avventura, la spinta verso quel futuro non ancora realizzato, in quel contesto così vario, si inseriva, in una perfetta imperfezione, proprio, Salvador Dalì. Adoro la sua arte, il suo modo di fare arte, il suo classismo eccentrico, il suo stile egocentrico ma ben centrato nel suo contemporaneo, accettato, nell’inaccettabile, sfoggio di una ricchezza spirituale in quell’abito borghese, benestante, che gli permise di frequentare le Accademie più rinomate facendosi un nome, concedendogli il beneficio di essere osservato, ammirato anche se, spesso, incompreso. La sua carriera fu, notevolmente, influenzata dalla sua inclinazione politica giovanile, prima anarchico poi comunista e, successivamente, affascinato dal regime, prettamente, autoritario di Francisco Franco. Non a caso George Orwell lo riteneva un grande artista ma un uomo pessimo dal punto di vista umano, le due cose, fortunatamente, rimasero ben distinte, iserendolo, di buon grado, tra gli artisti più riconosciuti del suo stesso tempo. Proprio in questo marasma, poco equilibrato, troviamo l’imperfezione di Dalì. L’artista dai colori vivaci ma dalle immagini drammatiche, l’artista eclettico, surreale, secondo le leggi del vero surrealismo ma, altrettanto, legato agli stereotipi politici e governativi. Un colpo al cerchio e uno alla botte, come si suole dire. Si passa dalla sua “Persistenza della memoria”, del 1931, ad opere come “Donna con testa di Rose”, del 1935, stesso periodo due concetti differenti, opposti:

Woman with a Head of Roses, 1935. By Salvador Dalí - da ResearchGate
Woman with a Head of Roses, 1935. By Salvador Dalí – da ResearchGate

Qui si trova la paura, la paura di non essere adatti, di non essere inseriti nel proprio contesto, di non essere accettati, riconosciuti, il terrore di essere sbranati, come mostra la testa di leone affamato sullo sfondo a destra. Una paura connotata da quegli scheletri femminili in primo piano, da quei volti illeggibili, da quella sedia sorretta da tre sole gambe, da quelle braccia strette, come una morsa, come un serpente, attorno alla vita della donna con la testa di rose. Un quadro, questo, che trasmette ansia, angoscia di vivere, inconsapevolezza del presente, così come del futuro. Questo è Dalì: l’imperfezione del suo tempo, l’imperfezione del tempo che scorreva, all’epoca, e continua a scorrere, tutt’ora. Bisogna guardare bene per capire, bisogna entrare nell’opera, decidere di aprire la propria mente a quella dello stesso artista, con quei suoi lunghi baffi, in ricordo del padre, con quegli occhi sempre attenti, forse troppo. Un equilibrio disperso, il suo, che sapeva ritrovare solo dipingendo. Allora vi mostro un paragone, con Maurits Cornelis Escher, di cui trovate un’opera in apertura e “Day and Night”, qui di seguito, del 1938:

Day and night (1938) - Maurits Cornelis Escher - da Flickr
Day and night (1938) – Maurits Cornelis Escher – da Flickr

L’epoca non è cambiata, siamo nello stesso periodo storico ma guardiamo al mondo con altri occhi. Potremmo domandarci quale delle due visioni sia quella perfetta, beh, ecco, nessuna delle due. Potrebbe essere perfetto Escher così come potrebbe esserlo Dalì. Escher, nel suo costante bianco e nero, racconta un mondo equilibrato, tra giorno e notte, tra matematica e geometria, tra essere e non essere, nell’infinità di ciò che ci circonda:

Swans (1956) - Maurits Cornelis Escher - da Flickr
Swans (1956) – Maurits Cornelis Escher – da Flickr

Cigni, bianchi e neri, come “Black Swan”, film del 2010 dal regista Darren Aronofsky, un incontro costante, e scostante al tempo stesso, tra bene e male, tra pace e caos, tra bianco e nero, appunto. Un incontro, questo, fatto di equilibrio e perfezione geometrica, come in tutte le sue opere si ricerca la stabilità d’immagine nell’immaginazione di chi osserva. Tutto questo, però, comporta la stessa inquietudine riscontrata nelle opere di Dalì che, sebbene si rappresenti attraverso un cosmo caotico e surreale, racconta una stessa storia, la fotografia di un’epoca che, bene, si inserisce nel nostro quotidiano, difficile, a volte, angosciante. E, poi, quelle mani, in apertura, che disegnano se stesse, si intrecciano, si codificano in un’opera tridimensionale caratterizzata, ancora una volta, da una perfetta imperfezione. Non si può stabilire, a priori, cosa sia giusto e cosa sia sbagliato ma si può imparare a convivere con le varie sfaccettature del nostro ego, del nostro Io e di quello di tutti coloro che attraversano il nostro stesso percorso. La perfezione è l’equilibrio dell’equilibrista che cammina, lentamente, concentrato, a volte spaventato e in pericolo, su quel filo sottile che lo pone al cospetto della vita affacciata alla morte. Non fermarti o perirai, direbbe il solito vecchio saggio, però impara a fermarti, ogni tanto, quando hai trovato il tuo equilibrio interiore e osserva, attraverso lo sguardo avrai modo di capire, imparare e approfondire molti aspetti della vita e della tua stessa introspezione. Siamo fatti per avanzare ma anche per fermarci, ogni tanto, per riposare, rimettere insieme i pensieri, le idee, riprendere il cammino con costanza e consapevolezza.

“Que’ prudenti che s’adombrano delle virtù come de’ vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi.”

(Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”, 1827)

Siamo uomini, siamo animali ragionanti, siamo capaci di scegliere, facciamolo bene e, sì, fermiamoci solo dove riteniamo di aver trovato uno spazio di comodità, da quel punto di osservazione ci apparirà tutto migliore, più chiaro.

Arianna Forni

Equilibrio - da KEBLOG
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