Ma che cos’hai in testa? Una domanda, spesso un’offesa, forse una polemica, oppure, l’esternazione dell’invidia di qualcuno. Cos’ho in testa? Un elegante cappello fatto a mano, ho in testa un’opera d’arte che racchiude ciò che sono e si prende cura delle mie idee, dei pensieri più profondi, dell’essenza di ciò che sono, di ciò che il mondo deve vedere, di me, di chi, come me, ha in testa lo stesso emblema di un tempo passato. Vive, rivive, ritorna, solo per coloro a cui è stata donata la capacità di rimanere eleganti nell’eletta eleganza umana. Solo per coloro che hanno una grande capacità: distinguersi in una baraonda di griffe sberluccicanti, costose, sì, solo per un nome. Coperti dalla testa ai piedi di qualcosa che mostri, al mondo, la loro ricchezza, sciatta, sguaiata, un acuto stonato in un mondo che non sa più cantare, grida, sbraita sproloqui senza motivo; e poi? Poi, solitudine infinita in quegli armadi griffati, senza un nome, uguali al resto del globo volgare, uguali a chi in testa non ha niente, nemmeno il cappello.

La reminescenza della persuasione di un atteggiamento regale, per le strade delle città, tra la gente, in un passato di ricchezza e mediocrità, ognuno possedeva il decoro. Oggi sono pochi, rari, coloro che ne conoscono il significato. Decoro: il decoro degli ambienti, il design d’interni, la decorazione per le feste, no, il decoro personale è la grande capacità di distinguersi rimanendo elegantemente classici, puliti, ordinati, mai troppo vistosi ma nemmeno, eccessivamente, anonimi. Il decoro va allo stesso passo, a braccetto, del buon costume, del bel parlare, del portamento, squisito, che resta un innato talento di pochi, una ricerca di molti e una barzelletta per chi vive nel suo sfrenato lusso, apparente. A Milano qualcuno resiste, pochissimi, sottolineo pochissimi, eppure c’è ancora qualcuno che conosce l’arte della bellezza, della raffinatezza: Gallia e Peter, Via della Moscova 60. Un paradiso immerso nel chaos cittadino, un mondo di fiabe mai raccontate, un paese di beltà e sottile conoscenza antica, delicata, immutata, così immutata da inserirsi, perfettamente, nel contesto di una hight society ristretta, caratterizzata dalla propria cultura sociale e storica, non dal portafoglio. Meraviglioso. Entrare qui significa aprire le porte di un passato, quasi estinto; vive ancora perché qualcuno ne possiede l’arte, la coltiva e riesce a mettere, proprio, sulla testa di chiunque decida di entrare, il cappello perfetto. Poche domande, solo risposte, date dalla gentilezza e dalla competenza della proprietaria. Lei che ha saputo mantenere in vita la storia nata con i suoi bisnonni nel 1904, a Torino, arrivata a Milano nel 1930, viva, vivente e sorridente ancora oggi. Stupendo. Magico.

Artisti che rendono possibile la relaizzazione di un sogno. Artisti che regalano la concretezza di un immagine del passato da rivivere nel presente. Artisti, e basta. La più antica modisteria di Milano resiste proprio per questo, resiste perché c’è ancora chi, come me, vive nel desiderio di rendersi elegantemente bello, non per i tacchi, le griffe, gli abiti scollati, corti e volgari, solo, elegante nei dettagli. Il cappello è un simbolo, da sempre, di raffinatezza, di cultura, di portamento. Gli anni ’30 e ’40 del Novecento erano colmi di uomini e donne adornati da splentidi cappelli, decorazioni per il capo capaci di mantenere quel decoro personale in grado di allontanare la delinquenza, le avance maschili schiette, prive di quella delicatezza di cui il gentil sesso avrebbe ancora bisogno. Quei cappelli con cui gli uomini salutavano le donne, chinando il capo, reggendo la tuba tra le dita, aprendo la porta dei ristoranti, aiutandole ad attraversare la strada, andandole a prendere e accompagnandole a casa dopo aver trascorso una serata tranquilla, parlando, ridendo, senza secondi fini, con la consapevolezza di dover corteggiare a lungo prima di poter stringere la mano della propria amata. Che bei tempi.

Era il 1886 quando il Maestro Boldini dipingeva il Maestro Verdi in quella tuba di raso nero, nell’eleganza della sciarpa rosata, in quel cappotto nero come il cappello regale. Uno sguardo benevolo, sicura di sé ma mai sprezzante. La barba grigia, quei baffi curati, contorno perfetto di un personaggio in vista, noto, famoso, avrebbe potuto togliersi sia il cappello che la sciarpa e il cappotto, indossare abiti casual e sarebbe rimasto lo stesso Verdi, forse no, forse è questo perfetto insieme a farcelo ricordare. Forse, quel cappello, non è solo un cappello, è un simbolo, uno status quo dal fascino imparagonabile.
“Pochi momenti vi sono nella vita di un uomo, nei quali sia così ridevole il suo imbarazzo e così scarsa in altri la commiserazione, come quando egli si trova ad inseguire il suo cappello. È indispensabile, in questa operazione del ricuperare un cappello volato via, una forte dose di freddezza e un grado speciale di giudizio. Non bisogna essere frettoloso, né precipitarvisi sopra; né d’altra parte si deve cadere nell’estremo contrario e rischiare di perderlo a dirittura. Il miglior mezzo è questo: di tener dietro dolcemente all’oggetto che si ha in mira, di essere vigile e cauto, di attendere il destro, avanzarlo di qualche passo, far poi una subita diversione, afferrarlo, e cacciarselo in capo solidamente: e tutto questo, sorridendo sempre con una certa grazia, come se la cosa vi paresse il giuoco più piacevole di questo mondo.” (Charles Dickens, “Il Circolo Pickwik”, 1838) Anche recuperare un cappello raccolto dal vento può dimostrare la propria disinvolta eleganza invece di una goffaggine, indisponente, di un uomo, sì, ben agghindato ma del tutto fuori dai suoi stessi canoni.

Ed ecco la bambinaia più famosa al mondo, in un cappello straordinario, un cappello che continua a vivere ancora oggi, sì, sulla testa di Mary Poppins, ma non solo:

Cambiano i colori, cambiano i tessuti, cambia la foggia e le pettinature, cambiano molte cose ma l’eleganza, ragazzi miei, è eleganza. Che tu sia una bambinaia oppure una grande Manager non ha importanza, resta te stessa e avrai sempre un motivo per esserti grata, per non esserti fatta coinvolgere dal brutto e dal volgare del nostro agghiacciante tempo. I cappelli non sono fatti per il Grande Fratello, per Uomini e Donne, per Temptation Island, non sono fatti per lo show-business, non sono fatti per inserirsi in un ambiente povero, di spirito, sono costruiti sulla testa di un’élite che sa apprezzare ma che, soprattutto, li sa indossare. Non è magia, si chiama cultura, cultura personale, cultura sociale. Siamo pochi ma, grazie al Cielo, ci siamo ancora.

Quindi? Cos’hai in testa, tu? Io mi tengo stretta i miei cappelli, mi tengo stretta le mie idee, il mio equilibrio dato da un retaggio antico, eppure, ancora così dolce, affabile, gradevole. Lo faccio perché desidererei avere la controprova di quanto l’eleganza provochi buon costume in coloro che ci affiancano; desidero che si aprano ancora le porte alle donne, si spostino le sedie per farle sedere e le si aiuti a indossare il cappotto. Sono certa di una cosa: rendersi diversi, in uno stile senza tempo, avrà, per tutti noi, il potere di regalarci nuova vita in una società malata. Malata di griffe, malata di apparenza, malata di ignoranza. Così malata da essere, quasi, incurabile. Iniziamo dal cappello, sono certa che, con calma, tutto tornerà come una volta: in equilibrio.

Arianna Forni