Paura, sgomento, terrore, pace, calma, purezza: il tempo. Che strano. Il ticchettio di un orologio, i secondi scorrono, scorrono i minuti, le giornate, i mesi e gli anni. Ce ne accorgiamo, eccome se lo facciamo; eppure non vogliamo avere tregua, non ci si ferma di fronte a niente, nemmeno alla paura. Sì, la paura di avere una fine. Non ci sono immortali a questo mondo, non ci sono supereroi, non ci sono highlander, purtroppo. Ma, allora, di cosa abbiamo paura? Siamo consci e consapevoli, siamo umani, fatti di carne, ossa, sangue, un cuore pulsante e un cervello pensante, beh, quest’ultimo non per tutti. Abbiamo paura, paura di soffrire, paura del dolore fisico. La morte non è spaventosa, la morte è una fine che determina un nuovo inizio, sia per chi Crede sia per gli atei, per tutti ci sarà qualcosa, dopo. La terra, però, non lascia scampo, nessuno sà né quando né come né dove giungerà il suo tempo. Quel momento sconosciuto ci fa riflettere, pensare, “del doman non v’è certezza”.

La Signora del Tempo, Marisa Falbo, 2012 - da Artegante
La Signora del Tempo, Marisa Falbo, 2012 – da Artegante

Solo il destino, per chi vi fa affidamento, potrebbe rivelarci qualcosa attraverso indizi nascosti, qua e là. Tanto non lo fa, anche se lo facesse non saremmo in grado di guardare, faremmo gli gnorri, meglio l’ignoranza che una disarmante conoscenza. Si sfugge dalla propria paura. Il tempo porta un’Arte umana e inumana al tempo stesso, il tempo è malvagio, meschino, a volte candido e benevolo ma, al più, scoraggiante. Non abbiamo mai tempo, non sufficiente a fare ciò che vorremmo, non adatto ai nostri progetti, non consono al nostro modo di essere. Non siamo mai in orario, ci sentiamo ritardatari, costanti, incapaci di regolare un orario interiore capace di donarci l’esperienza di essere giusti, nell’istante perfetto. Siamo fuoritempo, stonati, allunati e allarmati, pesanti come un Do maggiore senza fine, eterno, lui. Pensiamo di essere sempre sbagliati: è colpa del tempo.

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Mosca – diritti riservati PIC by AF

È colpa della conoscenza. È colpa della consapevolezza di quella fine, prima o poi arriverà. Allora ci barcameniamo per ottenere il massimo, per costruire il nostro presente e il nostro futuro in una società tecnologicamente avanzata ma, altrettanto, obsoleta, fastidiosa e scomoda. L’uomo: un essere animalesco che di animale ha mantenuto solo la sua mortalità poco Divina, il resto è ciarpame, è cattiveria, è invidia, gelosia, frustrazione. Poi, per fortuna, ci sono uomini buoni, altruisti, disposti a fare il massimo per aiutare gli altri, fossero tutti così vivremmo in un mondo migliore. Invece no, la maggioranza gode della sofferenza altrui, gode del plagio e della sottomissione che menti perverse applicano su quei buoni, fiduciosi, ingenui, sicuri di non potersi far uccidere da nessuno; annientati dai loro simili guardano la fine nei loro occhi annebbiati, solo allora, incontrano la paura, quella vera. Chi siamo noi per meritarci questo? Chi sono loro per permettersi atteggiamenti cotanto malevoli? Siamo diversi, ognuno vive a modo suo, ognuno trascorre il suo tempo come crede. Ad ognuno dovrebbe essere lasciata la libertà di sentire il TIC-TOC dell’orologio come un accompagnamento musicale, un Allegretto, il metronomo capace di scandire i nostri pensieri e i nostri attimi presenti, passati e futuri. Ognuno dovrebbe poter essere, in modo semplice, sé stesso. Niente di più. Più leggiamo i giornali, guardiamo i TG e più ci rendiamo conto di quanto sia dilagante la sofferenza provocata da altri come noi, che dico?, non come noi, aberranti esseri spregevoli capaci di tutto pur di godere di fronte alle lacrime e al sangue degli altri, dei buoni. Bisogna porre fine a tutto questo, chi ci pensa? Nessuno. La politica riflette, solo, sui propri litigi da terza elementare, gli imprenditori fanno il loro mestiere, non si curano di niente, dei propri dipendenti, delle loro famiglie, degli esseri umani vivi e vegeti, non carne da macello ma materiale unico per la crescita del proprio successo, della loro grande o piccola impresa. La regola è tale se esite un opposto, non sono tutti così, tanti lo sono, non tutti. Malessere, pesantezza. Caligola, nella tragedia di Camus, per porre fine alla sua vita, decide di invitare tutti i suoi amici per una cena luculliana. Con una scusa si alza da tavola, lentamente va a nascondersi laddove nessuno possa vederlo, per tagliarsi le vene dei polsi e tornare, allegramente, a tavola avvolto da una tunica rosso sangue, in modo che nessuno potesse accorgersi del suo ultimo gesto. Si siede con fierezza, fa in tempo a mangiare, a ridere, a scherzare, sempre con meno forze, sempre con meno voce, sempre più pallido, sempre più freddo, finché non arriva il momento, quell’uomo, non più Caligola, solo un uomo, lascia, definitivamente, il suo corpo. Solo allora gli amici si accorgono, solo allora la catarsi cade, incombente, prepotente, sulla testa di tutti. Caligola è morto. Morto perché stufo di un mondo incompreso e incomprensibile, morto per scelta, per abbandono. Morto con il sorriso perché certo di una decisione pesante, certo per sé ma non per gli altri, incapaci di capire, incapaci di non soffrire. Atti, gesti e parole hanno uno specchio: gli occhi degli altri.

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Provate a pensare di vivere oggi il vostro ultimo giorno: vi state comportando come vorreste che fosse? State parlando in modo che le persone, accanto a voi, abbiano un bel ricordo? Chi siete? Fatevi queste domande e provate a rispondere, non è facile, chi non ha mai visto la morte non può immaginare la propria fine, chi non ha mai visto la morte può solo averne paura. Sbaglia. Bisogna aver paura di vivere non di morire, bisogna imparare a vivere per non avere più paura, bisogna fidarsi, di sé stessi. “Non ti curar di loro ma guarda e passa” come dar torto a Virgilio, ne sapeva, sì, una più del Diavolo. Vivere una vita da vivi è Arte, viverla nel proprio tempo è altrettanta Arte, viverla a tempo, del e nel tempo, è l’apoteosi di un successo personale. Bisogna pensare.

Mi sovviene il testo della canzone di Fabrizio Moro del 2007: “Pensa prima di sparare / Pensa prima di dire di giudicare, prova a pensare / Pensa che puoi decidere tu / Resta un attimo soltanto, un attimo di più / Con la testa fra le mani […]”

Già, Pensa. Altra parola sconosciuta ai più e insita nel cervello di quelli che, ahimé, pensano talmente tanto e talmente bene da rendersi conto del Pianeta sul quale stiamo vivendo. Ci tocca stare qui, aspettare e pensare. Fermiamoci tutti, per un attimo, ascoltiamo la nostra mente e, all’unisono, sincronizziamoci con ciò che ci circonda. La globalità di un unico pensiero può cancellare la paura e ridarci il ritmo, metrico, per vivere una vita degna, dignitosa e ricca di prospettive visibili, concrete.

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Non so, so solo che è giusto avere paura, la paura ci può salvare da tante situazioni di pericolo reale; allo stesso tempo sono convinta che picchiare la testa possa servire ad aprirci la mente, a farci crescere. Sarebbe bello poter maturare senza dovere, per forza, subire degli shock. Fa paura il dolore, fa paura trovarsi di fronte a qualcosa di sconosciuto a cui non sappiamo far fronte, fa paura perché non siamo consapevoli, non siamo disincantati verso il male di questo mondo. Siamo indottrinati. Sappiamo cosa ci scorre accanto ma non lo guardiamo mai, già, mai, finché non ci capita, davvero. Allora quel dolore diventa reale, non è più un film, non è più il racconto giornalistico della vita di qualcun altro, è realtà. Fa male e fa paura. Il freddo di una canna puntata sulla fronte non è arte, è alienazione dell’essere umano trasformato nel Demonio. Poi parlano di regolazione di conti, di lotte tra gangster, di realtà mafiose.; l’uomo buono prosegue nella sua quiete, nella sua ignoranza, nel suo far finta di niente, poi, però, ha paura, si nasconde, aspetta Godot giungere in suo aiuto.

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Tratto dal primo Lungometraggio di Quentin Tarantino, del 1992 “Le Iene” – da Cinematographe

Intanto soffre, sta zitto, si vergogna di essere stato così sciocco da non pensarci prima. Non è mai troppo tardi. Sì, in effetti, non tutti ne fanno parte, non tutti sanno, veramente, dell’esistenza parallela di una società inquietante, quindi il male persiste, persevera, governa dall’alto di protezioni supreme. Intanto l’uomo soccombe sotto bombe di carta, sotto coriandoli colorati, sotto il baluginio di un successo mediatico remoto, sotto le sgargianti luci dello show business. Soccombe, sì, mentre aspetta il suo momento di gloria. Gloria? Quale? Bisognerebbe prima disegnare e designare cosa sia l’equivalente di gloria; dipende dal nostro ceto di provenienza, dipende dall’educazione, dipende, anche, malauguratamente, dalle mode. Allora la fine dei nostri giorni non è così male, se abbiamo vissuto bene saremo ricordati con benevolenza e amore, se lo abbiamo fatto male, purtroppo, saremo ricordati lo stesso, dai malvagi, dagli approfittatori, dai meschini viandanti in un mondo sanguinante, come Caligola, la differenza sta nel fatto che il Mondo non ha scelto di tagliarsi le vene.

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Cos’è la morte? Un passaggio della vita che prima o poi tocca a tutti.

Cos’è la vita? Un passaggio che tocca a tutti ma solo in pochi sanno prenderla nel verso giusto.

Giriamo pagina, possiamo ancora sistemare le cose, possiamo tornare ad essere “umani”.

Possiamo concludere secondo un assiome parte dell’etica della reciprocità: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, o per meglio dire, “Evita di fare quello che rimprovereresti agli altri di fare” (Talete). Con questo ricordo a tutti quanto una buona cultura possa salvarci dal male del mondo e possa salvare quel poco di dignitoso che ancora ci accompagna.

Pensa

Arianna Forni

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