Canale 867 SKY
UT PICTURA POESIS
Quattro grandi pittori contemporanei hanno tenuto la scena per una settimana all’insegna dell’arte e della cultura. Strepitoso. Armodio, Cargiolli, Casarin e Scuffi; pittori, sì, tutti diversi, tutti uguali, tutti presi dal loro interminabile lavoro, dalla loro creazione, dall’esternazione di sé stessi al mondo che li circonda, che ci circonda. Tutti diversi perché utilizzano tecniche diverse, guardano con occhi differenti quel mondo, purtroppo, ormai sempre uguale a sé stesso, in rovinosa decandenza, in crisi, già, non solo economica, una crisi morale, culturale, artistica. Una grave mancanza che bisognerebbe cancellare, riportare a galla quelle rimembranze antiche ben visibili nei quadri di ognuno di loro: ma come? Anzi, direi: come è stato possibile giungere a questo livello? Così in basso da riuscire a vedere il fondo senza più uno spiraglio di luce. Dobbiamo invertire la rotta, dobbiamo ricominciare dal Purgatorio, scalare, scalare ancora, con grande e grave fatica, fino a quel Paradiso capace di renderci immortali, tutti. L’immortalità non ci appartiene, siamo uomini, animali, carne e sangue destinata a tornare polvere, eppure, ora siamo qui, abbiamo uno scopo, dobbiamo migliorare noi stessi, renderci come un quadro: leggibili. Dobbiamo farci e fare delle domande, al contempo, però, dobbiamo saperci e saper dare delle risposte. Ognuno di noi sta cercando qualcosa, parlo dei ben pensanti, degli studiosi, degli intellettuali, parlo delle persone intelligenti, quelle capaci di raccontare e raccontarsi, quelle per cui staresti seduto ore ad ascoltare i loro discorsi. Ecco, i discorsi sono come i quadri. Ci parlano, bisogna lasciarli parlare. Appare sempre molto bello e illuminante ascoltare gli artisti raccontare la propria arte, ritengo sia utile, accattivante, colmo di quel cuore pulsante che gli ha permesso di dipingere proprio quel quadro e non un altro. C’è un però. Chi acquista, chi, semplicemente osserva, deve riuscire a vedere qualcosa, non importa se sia o meno l’esattezza di quanto l’artista ha fatto, basta trovare quella chiave di lettura utile ad entrare nell’ego, capace di spezzare i fili della quotidianità, in grado di far riflettere. Proprio come un libro, proprio come una poesia.
“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino…” (Eugenio Montale 1967)

Quanto è bello scendere quelle scale con qualcuno che ci tenga il braccio, la mano, che ci sostenga e ci aiuti a non inciampare, mai. Un’immagine stupenda. Quante volte, altrettanto, ci è successo di dover salire, con fatica, da soli, senza nessuno al nostro fianco, senza un consiglio sulla strada da percorrere, senza sapere quanto distante sarà la nostra meta? Troppe, per tutti. Troppe perché viviamo in un mondo dove ognuno pensa a sé stesso, al suo viaggio, alla sua vetta da raggiungere, al suo agognato successo. Salire, scendere, salire ancora e poi scendere: questa è la vita. Là, nell’alto del cielo, ci sono le costellazioni, a vegliare su di noi; ci guardano ma, forse, nemmeno loro sanno quale sia il nostro divenire. Dipende da noi, dal fatto di non soccombere alla fatica, di non soccombere alla solitudine.
Quella stessa amara sensazione possiamo sentirla in “Sono stanco, non mi attendere capitano. Che un altro annoti sul libro di bordo. Un porto azzurro, le cupole e i platani. Non mi ci puoi condurre” (Nazim Hikmet, 1961)

Difficile, imprevedibile, pessimista, se vogliamo dargli questa connotazione, invece, andrebbe guardato con un occhio molto diverso. Facile, prevedibile, speranzoso. Non è detto che si possa giungere fino al porto azzurro, non è detto, nessuno di noi ha la capacità di prevedere il futuro, tutto può succedere ma la speranza è grande. La meta è vicina, qui rappresentata da una matassa di fieno dondolante sopra una vasca. Qualche pezzo si stacca, cade fuori dal bacino, altresì, cade all’interno. La creatura ha fame, ha bisogno di nutrimento per poter fuggire da quella prigionia interiore, non ci riesce, spera di riuscirci, si dimena per farcela, non demorde. Questa è speranza, questo è positivismo. Tante persone sono imprigionate in una bolla di sapone senza sapere come uscirne, se solo qualcuno li aiutasse, anche solo con un dito, tutto sarebbe più semplice, vivremmo in un mondo di forti. Non dovremmo sottostare alla viltà di qualcuno convinto di essere super partes, di avere un potere talmente grande da poterci muovere come un burattinaio fa con le sue marionette. Ed è qui che entra in gioco il Don Chisciotte di Casarin, presenza/assenza che accomuna tutte le sue opere di questo ciclo poetico.
“…, rincaso, per neri piazzali…, tristi strade tra le baracche e i magazzini misti…, appare ancora dolce la sera” (Pier Paolo Pasolini, 1956)

Eccolo lì, il cavallo, il Don Chisciotte, al centro dell’opera, anche lui, come noi, torna a casa, la sera, cammina nel buio del calar del sole, procede nel suo incedere tranquillo, pensieroso, calmo. Una calma capace di allietare ogni fine giornata, la sola in grado di farci guardare al domani con la speranza di ricevere qualcosa di buono, di trovare un mondo migliore, un amico, una mano, qualcuno che ci accompagni tenendoci il braccio. Quella sera, illuminata da luci artificiali, illuminata dalla tecnologia, dai cellulari, dai locali aperti fino a tarda notte. Alienante e alieno allo stesso tempo; viviamo così, tra il nostro io e l’io della Terra, tra i nostri desideri e gli, ancor più incombenti, doveri. Viviamo; questo è quello che conta, questo è quello per cui dobbiamo avere fiducia nel nostro domani, magari non nel prossimo, a meno che non sia un parente strettissimo, dobbiamo credere in noi stessi, credere che qualcosa possa cambiare, che la cultura possa tornare di moda! Passatemi la battuta. Dobbiamo credere. Basta.
Chi sa trasmettere ricordo e positivismo in uno stesso quadro è Scuffi.
“I Cipressi che a Bòlgheri alti e stretti van da San Guido in duplice filar, quasi in corsa giganti giovinetti mi balzarono incontro e mi guardar” (Giosuè Carducci, 1874)

Un lungo viale alberato, porta a San Guido, non siamo capaci di percepire la distanza, non siamo capaci di calcolare il tempo utile ad arrivare fino in cima, il nostro sguardo, però, vede la mete, vede la speranza, sente il cuore battere forte nel petto. C’è e ci sarà sempre un domani, c’è e ci sarà sempre qualcosa che ci spingerà ad andare oltre, ancora e ancora, ad andare avanti, non importa se lenti o veloci, non importa correre o camminare, importa solo mettere i piedi nel posto giusto, soffermarsi, pensare, capire e poi sollevare l’altro piede, ben consci di dove andremo ad appoggiarlo, senza rischiare di cadere. Se non ci sarà nessuno a salire le scale, accanto a noi, tenendoci il braccio, saremo costretti a farlo da soli, non vediamolo come una costrizione, piuttosto come una possibilità. Mettersi in gioco significa crescere, ci garantisce di studiare il libro più importante al mondo: la nostra mente. Conoscersi significa conoscere la nostra strada, non la meta, quella verrà da sé, basta metterci impegno, giorno dopo giorno, sera dopo sera, gradino dopo gradino, difficoltà dopo, altre infinite ed interminabili, difficoltà.
Chi siamo noi se non un insieme di nozioni e di sentimenti? Chi siamo noi senza un cuore, un’anima e un cervello? Chi siamo noi?
Alinari lo sapeva bene, non c’è modo migliore per iniziare e chiudere con due sue magnifiche opere. Sebbene sapesse a cosa sarebbe andato incontro non ha mai perso la speranza e, soprattutto, non ha mai smesso di trasmetterla al resto del mondo.

Dott.sa Arianna Forni
Dalla Galleria Orler di Madonna di Campiglio (13-17 Agosto 2019)