Entri, guardi, giri gli stand, osservi le opere, non ti concentri, fai un giro veloce, il primo. Ti ritrovi all’ingresso con le idee più chiare, sai dove andare, sai su cosa soffermarti, sai quale sia il tuo percorso artistico all’interno della mostra. Prendi un po’ d’aria, bisogna schiarirsi le idee, l’arte è arte solo se viene compresa, digerita, assimilata. Si trasforma in qualcosa di vivo, vivido, parlante; si trasforma in una storia. Ognuno di noi ne ha una sua, personale, per questo bisogna essere capaci di non distrasti, mai, di seguire il proprio intimo rispetto reverenziale verso gli artisti esposti, verso i galleristi, verso la GrandArt. Ogni anno è una sorpresa, sebbene, anche questa volta, siano state esposte opere già viste e riviste, magari anche acquistate ma, di per sé, riportare in un luogo come questo un’opera già presentata, nello stesso luogo, non è, in definitiva, una carta vincente, anzi. Non so se sia la scarsità di artisti contemporanei validi a determinare tutto questo. Non so se sia una carenza di talent scout capaci di vedere la luce, vera, dietro ad una tela. Non so. Quello che so è che ci sono dei giovani artisti straordinari a cui, troppo spesso, non viene data la possibilità di entrare nella lobby dell’arte che conta: quella di Hirst, di Jeff Koons, di Banksy. Artisti, sì, più brand, forse, più gettonati perché sanno vendersi, perché hanno crato un alone di mistero attorno alla loro produzione, perché fanno notizia. La notizia, però, non è arte, è scoop e lo scoop si vende alle testate giornalistiche, non nelle gallerie, non si espone nei musei.

Damien Hirst

Allora mi sovviene la canzone di Fiordaliso:

“Non voglio mica la luna
Chiedo soltanto un momento
Per riscaldarmi la pelle guardare le stelle
E avere più tempo più tempo per me”

Jeff Koons

Appunto. Nessuno di noi vuole la luna, vogliamo tutti solo un momento per stare a guardare e trarre qualcosa, qualche insegnamento, qualche sensazione, un’emozione. Non basta che un’opera sia inflazionata, in pratica “griffata”, serve altro. Servono storie da raccontare, servono parole, non dette, dentro la nostra mente. Scorrono, ci danno dei consigli, ci permettono di guardarci dentro e di vivere quel “Dream Big Dreams”, con cui abbiamo aperto, sapendo di potercela fare. Più alto è l’obiettivo più facile sarà raggiungere almeno la prima meta. Poi ti trovi davanti questo:

Illusion, 2018

Il sangue si gela nelle vene e il tuo amore verso l’arte contemporanea vacilla. Perché? Siamo fatti di ricordi, siamo fatti di esperienza costruita sulla memoria, siamo fatti di carne, ossa, sangue, acqua, siamo vivi. La vita non è un’illusuione, a meno che qualcuno non decida di viverla dietro uno schermo di uno smartphone, chattando con gente sconosciuta, per lo più negativa, limitando, così, ogni possibilità, concreta, relazionale. Questa faccina manga, nascosta dietro quegli occhi grandi, quella bocca spalancata, quei denti da vampiro, beh, è una costante negativa di questo mondo, è triste, è snervante, indisponente, quasi, oserei dire, fastidiosa. No. Non ci siamo.

Fabio Adani

Poi, finalmente, c’è Adani. Non puoi far altro che fermarti, tanto tempo. Guardare i dettagli di una tela che sembra, agli occhi di un inesperto, vuota, bianca, con qualche ombra e poco altro. Questa è arte, è la magia dell’arte. Quella stanza vuota, quell’eco di passi morbidi, quelle due ombre sottili di due uomini in fase di avvicinamento, non importa se fisico o emotivo, eppure, sono coinvolti l’uno con l’altro. Sono lontani, si cercano, si guardano, si studiano, provano a capire come comportarsi, così anche noi. In quella tela potrebbero esserci altri mille personaggi, altrettante ombre, tutti lontani, tutti rivolti verso quel qualcuno capace di catturare la nostra attenzione. Una meraviglia umana, si chiama psicologia, chimica, partecipazione, coinvolgimento, desiderio di condivisione, di un istante, di una vita intera.

“Oh, life is bigger
It’s bigger
Than you and you are not me
The lengths that I will go to
The distance in your eyes
Oh no, I’ve said too much
I set it up”
(Losing My Religion, R.E.M.)

Max Gasparini “What did you dream?”, 2013

Le donne non mancano mai, raccontate in vari modi, espresse in varie pose, con delicatezza, con rozza riflessione sessuale, con maestria, come nel caso di Gasparini, uno dei pochi a raccontare un sogno vero, un sogno profondo, un sogno di una donna. Cosa starà osservando? Quale sarà il suo viaggio? Ma che importa? La sola cosa che conta è la libertà lasciata, ad ogni osservatore, di vedere e sentire ciò che vuole. Magnifico, una tecnica sublime con l’utilizzo della iuta, un materiale in grado di dar vita alla staticità di un quadro. Questa può essere illuminante, può tenerti dentro i suoi occhi chiusi per delle ore. Lei ti sta parlando, parla al tuo cuore, parla alla tua mente. Ti parla. Cosa che, ahimé, non fa Ilaria del Monte con “Foemina Simplex”, un olio su tela del 2017:

Ilaria del Monte

Buona disegnatrice, non adoro il taglio dell’opera e nemmeno la prospettiva ma non si può dire che le manchi la tecnica, però, c’è un però, forse due, ce ne sono un’infinità. Il primo è questo:

Ofelia, J.E. Millais, 1851-1852

Mi pare ci sia poco da aggiungere, se non: mia cara non ti sei inventata niente, Millais ci è arrivato del 1851, tra l’altro con riferimenti storici e allogorici non da poco. Tutto questo denota una carenza di cultura di base, una scappatoia per riusciare a relaizzare qualcosa di valore. In secondo luogo è nuda, non sono contro i nudi, ci mancherebbe, ma perché? In quale modo, un’opera contemporanea, può svendere, ancora e ancora, il corpo della donna diserbandolo di un significato più profondo? Beh, il presupposto è che il quadro sia proprio dipinto da una rappresetante dello stesso sesso. Facciamoci delle domande e diamoci delle risposte. Appare sempre troppo facile parlare di mercificazione del corpo femminile se poi siamo le prime a sbandierarlo ai quattro venti. Teniamola come una considerazione super partes. Non sia mai che qualcuno possa offendersi.

Ho trovato geniali le viste cittadine di Fabio Giampietro:

Fabio Giampietro

Argomento differente, approfondito con una tecnica perfetta e uno sguardo, decisamente, moderno. Bello, pulito, dai colori spenti ma vividi, un controsenso, forse, ma rende perfettamente l’idea di ciò che stiamo osservando. Bellissimo. Potrebbe essere un recupero di un sottotetto qualsiasi; un luogo dove leggere e studiare in pace, dove distaccarsi dal mondo pur essendone, continuamente, parte integrante. Non si smette mai di essere cittadini del mondo, sempre ammesso di non volersi legare allo slogan “Remember, it’s just an illusion”.

C’è qualcosa in tutto questo che fa riflettere. Siamo tutti coinvolti nella stessa situazione, viviamo e lo facciamo sulla stessa terra, insieme ad altre persone, ad altri animali, a persone trasformate in animali, ad animali trasformati in persone; insomma, siamo tutti sulla stessa barca e nessuno di noi vuole vederla affondare. Il desiderio è tornare a sognare, tornare a guardare avanti con occhi positivi, salvare il salvabile e costruire qualcosa di nuovo, nonché solido, per le generazioni che verranno dopo di noi:

Giuseppe Fioroni, Un cuore in Frantumi, 2018

Basterebbe usare il cuore, prima ancora della testa, forse servirebbe usare cuore e testa all’unisono, come in una bella sinfonia. Basterebbe, sì, purché non sia in frantumi, come questo, di Giuseppe Fioroni.

Dott.sa Arianna Forni

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