“PITTURA OGGI, significa vita oggi, dibattito del problema oggi”
Eccoci ritornare, come sempre, sui temi di Maurizio Nannucci, grande artista, grande filosofo della parola; abile, sottile, sarcastico, tranchant, impavido, giocatore di scacchi, tra le lettere cangianti dei suoi neon.

Tutta l’arte è stata contemporanea, come a dire che tutti gli uomini sono stati bambini: un assunto, una frase talmente lapalissiana da perdere di significato ed è proprio qui che nasce il dilemma, il bello del gioco dell’arte. Bisogna scoprire cosa sia vero e cosa non lo sia, dove inizi la realtà e dove finisca, dove si trovi il contemporaneo e dove l’antico, dove il futuro e dove “l’oltre”. Sul fatto di trovarsi di fronte alla catarsi o meno questo dipende molto da chi siamo, da dove proveniamo e, non meno, da dove siamo diretti. Tutti abbiamo un obiettivo, non tutti, però, sappiamo chi siamo, cosa siamo e come fare ad intenderci nell’insieme del contesto in cui viviamo. Cosa sia contemporaneo e cosa non lo sia è peggio di scoprire il dilemma di Amleto; in quel suo “Essere o non Essere” sta solo scegliendo se e come inserirsi in un contesto troppo difficile da comprendere, troppo arbitrario per poter interagire. Dobbiamo scegliere se Essere o se, invece, preferiamo Non Essere. Era il 1609 quando Shakespeare sottoponeva il pubblico a questa domanda senza risposta. Siamo nel 2019, quasi 2020 ormai, e ancora restiamo attoniti, pietrificati, in attesa dei posteri. Inetti. Siamo degli inetti. Ci riempiamo la bocca, lo stomaco e lo spirito con il senso di resilienza, non regala sazietà, anzi, ci svuota in modo miserabile ma ci fa apparire forti davanti a quel mondo capace solo di spaventarci, tutti. Allora guardiamo Vedova, guardiamo un uomo che sapeva di dover dipingere la sua epoca, con i suoi problemi, la sua turbolenza, le sue ossessioni e oppressioni, le sue morti, le sue nuove nascite, le scoperte, la povertà accanto al benessere. La Seconda Guerra Mondiale aveva distrutto tutto, non solo fisicamente, anche moralmente, materialmente, psicologicamente. Chi era riuscito ad alzarsi in piedi aveva di fronte un grande futuro, chi era rimasto al palo, umiliato da sé stesso, fallito nella psiche, beh, è rimasto lì. Vedova lo aveva capito bene e nel suo ciclo di opere tonde racconta proprio questo.

Il cerchio è qualcosa di troppo perfetto per dare serenità, in senso lato. Il cerchio è pesante, ci mette alla prova, non sappiamo dove guardare, come guardare, non abbiamo la capacità di capire quale sia il diritto e il rovescio. Una medaglia, insomma, con la capacità di farci vivere e morire nello stesso attimo. Questa era la sua società, era il suo contemporaneo, quello della metà del 900, quello in cui nascevano le mode, in cui i capelli delle donne erano sempre perfetti e le macchine degli uomini brillavano di luce propria. Erano gli anni delle scarpe di vernice, degli abiti su misura, dell’eleganza come obbligo e della cecità nei confronti di chi non aveva niente, solo le toppe sui pantaloni e i calzini bucati. Erano gli anni in cui la delinquenza si insediava nelle alte sfere sociali, in cui chi non resisteva agli obblighi sarebbe scomparso, morto, eliminato dai ricordi per servire da monito a chiunque volesse seguire le sue orme. Tutto questo si vede benissimo nelle opere di Vedova, in quei cerchi tanto angoscanti quanto luminosi, brillanti, colmi della voglia di cambiare tutto, di essere migliori, di parlare al popolo attraverso l’arte, attraverso un linguaggio comprensibile. Sono un grido alla libertà: di pensiero, di parola, di azione, di vita. Una libertà mai conosciuta dagli uomini di questa Terra, mai conosciuta dagli esseri viventi che abitano questo Pianeta; ed ecco, ancora, tornare alla sfera che Vedova ha scelto per dipingere il suo presente.

Ogni mostra ha i suoi pro e i suoi contro, ha opere maestose ma troppo inflazionate per essere apprezzate fino nel profondo, ne ha altre meno conosciute, misteriose, su cui è più facile soffermarsi, ore ed ore, alla ricerca della singola pennellata, alla ricerca di quell’errore che renda il lavoro qualcosa di stupefacente. Con Emilio Vedova non succede; ogni pezzo esposto ti toglie il fiato, è molto semplice: parla dell’oggi. Non importa che fosse il suo “oggi”, il nostro non è diverso, anzi, sotto molti punti di vista è peggiore. Abbiamo rovinato tutto, non siamo stati capaci di mantenere quel poco di buono che avevamo costruito. Ci siamo lasciati governare dall’imposizione di essere ciò che non siamo e di pensare ciò che mai penseremo. Abbiamo rovinato le scuole, le università, i bambini, abbiamo impoverito lo spirito di tutti e allora, ecco, sì, serve Vedova, servono tutti gli artisti del 900, uniti con un unico scopo: dare delle capre a chi è rimasto al 1984 con:
“Siamo ragazzi di oggi
Anime nella città
Dentro i cinema vuoti
Seduti in qualche bar
E camminiamo da soli
Nella notte più scura
Anche se il domani
Ci fa un po’ paura
Finché qualcosa cambierà” (Eros Ramazzotti, “Terra Promessa”)

Ma cosa? Cosa? Cosa? Ditemi: cosa è cambiato da questo dipinto? Niente, sapete perché? Ma dai, siamo i ragazzi di oggi, anche se il domani ci fa un po’ paura restiamo ad aspettare che qualcosa cambi, per farlo meglio lo facciamo restando immobili nell’attesa del Messia. Poi non domandiamoci perché non torni a darci una mano, siamo talmente beceri che se anche dovesse tornare nessuno se ne accorgerebbe, anzi, saremmo talmente pochi ad accorgerci di Lui da essere presi per pazzi, visionari e, probabilmente, qualcuno ripescherebbe il rogo con cui Giovanna D’Arco è stata arsa viva il 30 Maggio 1431. Bisogna ricominciare da capo. Bisogna ripartire dall’inizio, fermarsi, tutti insieme, pensare, poi, con molta calma, riprendere a camminare, ricominciare a studiare la storia e con essa l’arte, emblema essenziale ed esistenziale della storia stessa.

Quindi? Vi chiederete, chi è Emilio Vedova? Beh, è un grande artista, uno dei più grandi del suo tempo, ha saputo andare avanti per la sua strada, con la sua testa, con i suoi colori, il suo essere fuori dagli schemi, il suo raccontarsi, il suo parlare a chi osserva con parole semplici ma, altrettanto, decise. Vedova è, era, ci ha tristemente lasciati, nel 2006, un uomo consapevole, sa cosa vuole e sa, sopra ogni altra cosa al mondo, che storia vuole raccontare. Non aveva Instagram ma le sue storie erano talmente incisive da essere ancora, drammaticamente, attuali. Le sue opere sono pièce teatrali, sono vive, pulsano, ti chiedo di avvicinarti e poi ti scacciano, ti richiamano, come una calamita e poi ti respingono. Le sue opere vogliono che sia tu a trovare la risposta, Dio solo sà quanto sarebbe importante che quella risposta la trovassero le persone giuste. Non tutto è perduto, basta solo non lasciarsi trafiggere.
Dott.sa Arianna Forni

“Che cosa è un quadro, l’arte! Un nucleo di energia attiva”