Palazzo Reale, Milano – Georges de La Tour

“La Tour is the triumph of art history and its justification. In fact La Tour would not exist without art history” (Jacques Thuillier)

La storia dell’arte è fatta dai personaggi che ne hanno costruito le fondamenta, andando e guardando oltre, spingendosi verso nuovi, inesplorati, confini, superandoli, vincendo sui dogmi accademici, facendo dell’arte solo arte. Purtroppo, mi viene da dire, questa frase di Thuillier è, esattamente, la fotografia di La Tour. Un artista degno di essere chiamato tale ma vivo, nelle sue opere, solo, ed esclusivamente, grazie alla grande storia dell’arte precedente, senza la quale non esisterebbe, non saremmo qui a parlare di lui, non avremmo modo di osservare le sue tele. Appare semplice stupirsi davanti a quell’uso della luce quasi magico, a quelle candele accese, quelle fiamme capaci di raccontarci storie infinite, profonde, a volte troppo crude, altre troppo mistiche. Sembra facile, nonché doveroso, sentirsi costretti all’elogio di La Tour, al plauso verso quei lavori ma, parlando da osservatrice consapevole e non da semplice indottrinata, mi discosto da tutto questo. Non posso far altro che scriverne con grande senso critico. La Tour si è lasciato, giustamente, influenzare dal Caravaggio, un pilastro dell’arte, un genio nell’uso dell’illuminazione dipinta, della spazialità, della vita gettata sulla tela. Nelle opere del Caravaggio gli attori sono reali, sembra di essere a teatro, sembra di guardarli muoversi, parlare, gridare, vivere e morire, sembrano veri. I quadri di La Tour sono permeati di colori sempre uguali, le figure sono piatte e schiacciate in una prospettiva imprecisa, non hanno forma, non hanno calore, non c’è pathos. Sono figure messe lì, ben disegnate, eppure prive di un racconto; ed è allora che, come se anche lui ne fosse consapevole, si “accende” una candela, in un punto strategico del dipinto. “..e luce fu..”, in questo modo crea la storia, crea la vita, crea quello che non sarebbe stato in grado di dipingere senza la scappatoia della luce e della sua, sempre presente antagonista, ombra.

Educazione della Vergine, 1650 ca.

A questo punto dobbiamo parlare del colore. Per dare forma ad un disegno ci sono vari modi, si può essere geniali nel dipingere drappeggi eccelsi, ricordiamo le vesti degli autoritratti di De Chirico ad esempio, si può, altresì, essere perfetti nella riproduzione di un volto con tutte le sue sfaccettature espressive, oppure, come in questo caso, si può, appunto, accendere una candela. Il colore, per forza, dovrà uniformarsi a quello della fiamma, da qui derivano tele intrise di pigmenti caldi, rossi, marroni più o meno intensi, ampie parti scure dove il tratto viene annientato dall’ombra, poi troviamo i chiari, troppo chiari, laddove parrebbe dover cadere lo sguardo ma, no, non cade, inciampa e basta. Il problema di fondo è proprio questo: lo sguardo non casca mai nel punto centrale della storia, si concentra sulla candela, si distrae nel punto di massima illuminazione perdendo di vista la sostanza. Nell'”Educazione della Vergine” il nucleo sta nel libro, nelle mani dell’insegnante mentre tengono aperte proprio quelle pagine; peccato sia l’ultima cosa sulla quale un neofita riesca a concentrarsi, prima viene tutto il resto: la cintura della Vergine, il volto bianchissimo, la sedia sullo sfondo, la veste della donna e così via. Allo stesso modo possiamo prendere ad esempio “Giobbe deriso dalla moglie”, 1650 ca.

La questione non cambia, i colori sono gli stessi, le immagini sono piatte e senza forma, non sono umani, sono disegni, poi compare la candela, primo elemento sul quale chiunque senta l’obbligo di soffermarsi. Ci si sposta, si vedono le mani giunte del povero Giobbe a chiedere pietà, non si sa se alla moglie o a La Tour per averlo costretto a trovarsi in questa umiliante situazione, pittorica e storica. Decidendo di fermarsi e approfondire ci si sposta verso l’alto della tela ed è solo allora l’istante in cui si intravede il petto rachitico di Giobbe, lo sguardo disperato, la barba troppo folta. Eppure, nonostante sia questo il centro del racconto, resta nell’ombra, nell’oscurità, quasi a voler dire, agli astanti: “Immaginate”. La candela continua a bruciare, illumina, in modo eccessivo, la veste della donna mostrandone tutti i difetti, fino ad arrivare a quella posizione, totalmente, innaturale del collo di lei. Eppure la luce fa, l’ombra alimenta la suspance e i contemporanei si sciolgono in complimenti che non merita. Un ultimo esempio, ancora più evidente, si trova nel suo “Giovane che soffia su un tizzone”, 1640 ca.

Avvolti dalle tenebre ci accorgiamo di una presenza, un volto totalmente inumano, potrebbe tranquillamente arrivare da un altro pianeta, una mano la quale, a prima vista, potrebbe avere due sole dita, l’immaginazione fa grandi cose: riesce a creare le altre quattro, poi il tizzone. Il tizzone? Parrebbe un pezzo di pane ma prendiamo per buono che sia, veramente, un tizzone. Qui manca la candela, non il fuoco, solo la candela. Lo studio della luce di la Tour si è fermato al fuoco, non esiste il giorno, non esiste la notte, esistono solo figure, di dubbia provenienza, emergere dal nulla più oscuro grazie al fuoco. Ecco: questo è La Tour. So di essere stata molto cruda, almeno quanto le sue opere, so di non essermi uniformata alla colta dottrina accademica, so, allo stesso tempo, di non sbagliare. Vorrei dimostrarvelo e lo faccio con “Cupid as Victor”, anche conosciuta come “Amor vincit omnia”, 1601, una delle più belle e profonde opere, proprio, del Caravaggio.

“Cupid as Victor”, Caravaggio, 1601

L’amore vince su tutto, vince sulle armi, sulle frecce che Cupido stringe in mano, vince sulla sfera celeste, vince sui dogmi con cui si impartisce lo studio della musica, vince sul male, vince anche sul bene, vince perché ha qualcosa in più. In questo caso vince il genio artistico capace di far vivere, e rivivere, di vita propria quel Cupido così bello, così perfetto nello sguardo, nei movimenti, nell’atteggiamento. Ci osserva, ci sta parlando, quello che vuole dirci è semplice ma sembra incapace di arrivare al cuore della popolazione di oggi. Basterebbe un po’ di cultura, allora sì: capiremmo, tutti. Amor vincit omnia, non pensate all’amore da farfalle nello stomaco, no, pensate piuttosto all’amore per voi stessi. Bisogna partire da lì per trovare la concretezza della luce, a quel punto potremmo anche permetterci di soffiare sulla candela.

Dott.sa Arianna Forni

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