“La nebbia agli irti colli

piovigginando sale,

e sotto il maestrale

urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo

dal ribollir de’ tini

va l’aspro odor de i vini

l’anime rallegrar. […]” (San Martino, G. Carducci, lirica contenuta in Rime Nuove, 1861-1887)

Parrebbe vano il tentativo di tradurre in prosa ciò che possiamo leggere, e comprendere, in rima. Ciò nonostante, credo serva un spiegazione ulteriore; un Oltre che possa avvicinarci, noi uomini del 2020, ad un Carducci di fine ‘800 e capire, in modo drammaticamente catartico, quanto questa odicina anacreontica (metrica adottata: quattro quartine di settenari) sia attuale. Quella nebbia sale, sotto la fitta pioggia di umidità, è fastidiosa, pungente, annebbia la vista, appanna gli occhiali, incupisce l’animo, imperterrita, continua a crescere. Non è altro che quel primo caso di Covid-19 che ha colpito l’Italia, Codogno, ci ha costretti ad indossare le mascherine e rispettare regole ferree per uno stile di vita a cui non eravamo abituati e non avremmo mai voluto abituarci. Si sente il boato del mare, le urla prepotenti delle onde, il fischiare del vento, le fronde degli alberi, la paura della gente; non ci si può fermare. Sei tu. Tu che vorresti scappare, tu che vorresti fare qualcosa per cambiare questa situazione ma non puoi, sei inerme davanti alla potenza di qualcosa di sconosciuto e, per questo, incontrollabile. Tu che cerchi ristoro nel pensiero, tu che cerchi il contatto e non lo trovi. Il vento è troppo forte, la corrente impetuosa blocca i tuoi movimenti, non sai cosa fare. Speri. Tu, come noi.

“Le onde dicono alla costa salda:

Tutto sarà compiuto” (Pablo Neruda, Ode alla Speranza)

Théodore Géricault, La zattera della Medusa, 1818-1819

La speranza è sempre l’ultima a morire, potrebbe anche farlo dopo di noi o, in una ipotetica vita dell’anima, potrebbe non morire mai. Nessuno ci impone di sperare se non il raziocinio salvifico utile a proteggere l’integrità mentale. Ci hai mai pensato? Spesso cadiamo in momenti bui, quelle tenebre dalle quali fatichiamo a uscire, ci sovvengono pensieri negativi, si annientano le motivazioni e l’immobilismo ha il sopravvento. Qualcuno si abbandona alla depressione, è più facile sedersi in poltrona, piangersi addosso e trovare giustificazioni, scuse, al proprio fallimento ma, in un attimo di lucidità, interrotta da elementi esterni di distrazione, recuperiamo la speranza. Torna la luce, gli occhi si aprono, i muscoli vibrano e la mente vola verso nuovi, sani, obiettivi. Speri di farcela, anzi, giunto a questo livello di sopportazione e rinvigorito dal tuo stesso ego, sai che, prima o poi, ce la farai. D’altra parte, come dico spesso in ambiente sportivo “Prima di saperlo fare non lo sai fare”. Ci vuole tempo, per tutto, anche per dimostrare al nostro cervello di essere in grado di controllare le emozioni, vincendo quelle negative e soppesando quelle positive. Ci vuole tempo, non ne abbiamo all’infinito ma ne abbiamo, dobbiamo, solo, sfruttarlo per migliorare la nostra capacità di problem solving. Sei un problem solver? Ormai è diventato un must di prim’ordine all’interno di scarni CV post laurea, lo trovo ingannevole, come molte campagne marketing. Sono tutti eccellenti solutori di problemi tanto quanto i prodotti vengono presentati come “prodotto dell’anno”. Va bene così, ognuno cerca di vendersi al meglio, anche se: meglio poco ma vero che troppo ma falso; non è una battuta, è una sacrosanta verità, sconosciuta ai più. Impareranno.

Francisco Goya, 3 Maggio 1808

Nel lento fluire del tempo ti rendi conto di non essere solo, ci spostiamo, insieme, nelle vie del borgo. I rumori sono tanti, niente di simile al boato del mare, la gente parla, le porte si aprono e si chiudono, si sente qualcosa bollire, si sentono profumi accoglienti. Stai meglio, stiamo meglio. Ecco quell’attimo di ristoro, di condivisione intellettuale e fisica di un momento difficile. Ecco il contatto, breve ma intenso. Un calice di vino in grado di rallegrare qualsiasi situazione, anche le peggiori, è proprio quello che ci vuole. Non importa che tu sia in una zona rossa, arancione o gialla, come se colorare la cartina geografica rendesse meno pesante l’accettazione dell’inaccettabile virus pandemico; non importa, in definitiva, a quali restrizioni tu sia sottoposto, importa solo, e non solo, che ce ne siano, con esse malumori, nervosismo ed una, conseguente, solida apatia. Beviamo uno Spritz? Che domanda sciocca. Davvero, davanti a tutto questo, vuoi bere un aperitivo? Sì, diamine, sì, sono ancora vivo e voglio ancora condividere qualcosa con qualcuno, non importa chi e non importa dove ma datemi il mio Spritz. Sembrano sciocchezze, sembra strano che le città si siano riempite di runner, di sportivi incalliti, di lettori che, pur non sapendo leggere, comprano libri. È strano, forse, o forse no. Ti hanno tolto tutto: il lavoro, gli hobby, gli amici, le abitudini; cerchi di creartene delle altre, ci provi e ci credi perché, altrimenti, non arrivi a domani.

Emilio Vedova, Palazzo Reale, Milano, Diritti riservati – PIC by AF

Siamo il Paese dell’egocentrismo corrotto, delle differenziazioni, delle decisioni politically correct, dell’essere populisti, per piacere ai più, sebbene si vada contro gli interessi economici dell’impresa (quella vera, quella che muove il PIL e sostiene gli scambi internazionali). Siamo il Paese delle cose non dette, dell’imposizione non spiegata, dei DPCM confusi; siamo il Paese dell’accoglienza senza limite, facciamo il nostro danno ma, dai, siamo italiani. Siamo un Paese, tra i tanti, nel mondo, un punto sulla cartina, un numero, siamo in 60.103.569 per l’esattezza. Come a dire: “non saranno tutti stupidi”. Forse, dopo il secondo Spritz, in effetti, lo sei anche tu, lo siamo tutti, altrimenti questo limite di accettazione, di sopportazione, non ce l’avrebbe nessuno.

Ecco che il Carducci di metà ‘800 entra, prepotente, nelle nostre vite, ci racconta chi siamo, dove andiamo e cosa stiamo facendo, esterna dei sentimenti veri e comuni. Niente è cambiato e niente cambierà, sono i cicli della vita, epoche che ritornano, sentimenti altalenanti che si susseguono secondo uno schema, discretamente, preciso. Nella nebbia, tra il rumore del mare, le urla incessanti del vento, spunta la vita umana, c’è bisogno di un attimo di tregua, un bicchiere di vino. Basta poco per sentirsi meglio.

Cheers, alla salute, finché ce n’è non abbiamo di che preoccuparci se non della morte indegna e indecorosa che qualcuno ha deciso di farci fare: affogati nel vino, intorpiditi nello spirito, costretti all’abnegazione di noi stessi, ridotti ad essere ciò che non siamo.

Sai chi sei? Io no.

Dott.sa Arianna Forni

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