Forse ti sei abituato a guardare alla vita con abitudine, sai cosa farai, a che ora, come e dove, sai che ogni tua giornata, ogni istante, avrà uno scopo. Con molta probabilità, però, fai ancora fatica a soffermarti sull’attimo stesso della genesi di un momento, anche adesso. Riccardo Roiter Rigoni ha capito qualcosa di molto rilevante nell’essenza stessa dell’essere umani, mortali, ha scoperto la magia di un potere che possediamo tutti ma di cui solo pochi ne sono padroni: fermare il tempo, per rendere il passato ancora vivo e vivido nel nostro presente. Non conta che abbia una macchina fotografica in mano o una tastiera sotto le dita, non importa il mezzo, quello che conta è l’espressione di quella calma generata dal caos, di quell’equilibrio nato dall’inquietudine.

1. Quando sei nato e dove?

Sono l’ultimo nato del 1979 al Lido di Venezia, all’Ospedale al Mare di cui parlerò più avanti! Era il 31/12/’79, al Lido di Venezia.

2. Da dove nasce la tua espressione artistica? Cosa rappresenta Venezia, per te?

Nasce da un’inquietudine, dal voler indagare e raccontare qualcosa. Ho incontrato l’arte in seguito ad uno stato di paura, quella paura di buttare via i giorni della mia vita rendendoli tutti uguali, avevo il desiderio di costruire qualcosa in grado di rendere ogni istante differente, portando la vita su un piano superiore: mi sono chiesto se la vita dovesse essere solo casa / lavoro, riducendo al minimo il proprio tempo libero. Questi pensieri sono iniziati molto presto, dal momento in cui ho iniziato a lavorare in realtà private, sentivo che mi mancava qualcosa. Tutt’ora lavoro per l’Autorità Portuale di Venezia ma riesco a far convivere arte e lavoro rendendo la mia esistenza esattamente come avrei voluto; senza l’arte non avevo la possibilità di scoprire l’unicità dell’esistenza. La mia attività artistica ha avuto inizio quando avevo 21 anni.

3. Artista, fotografo, scrittore, poeta: qual è l’espressione che più ti rappresenta? Che differenze riscontri in ognuna di esse?

Mi rispecchio nel tutt’uno, nella ricerca di qualcosa, a volte lo trovo in un tipo di espressione altre in un’altra, l’insieme crea ciò che sento di essere. La fotografia è quella che mi ha portato ad essere più riconosciuto, a tutti gli effetti è più diretta nel passaggio del pensiero all’atto creativo; è immediata nella ricezione da parte dei fruitori ma per me non è la più rilevante è solo quella che incontra un pubblico più ampio, ha solo una condizione di privilegio. Nella fotografia la cosa che emerge maggiormente è il cogliere l’attimo che per me rappresenta l’infinito che non riuscirai mai a raccontare. Posso pensare a qualcuno, a qualcosa e solo con la fotografia posso fissare quello che sarà, sempre e per sempre, un’energia che mai si trasformerà in qualcosa di verbale e di scritto. A livello di scrittura penso che emerga di più la voglia di introspezione, di indagare dentro a quegli aspetti psicologici e umani più importanti. Il mio romanzo “Come la Luna alle porte dell’alba” scava nell’interiorità umana, nell’essenza stessa dell’essere. È ambientato nell’Ospedale al Mare, un luogo energicamente molto forte, riesce a raccontare le emozioni di molti, a tirare fuori ciò che siamo, a suscitare pensieri, ragionamenti ma non è solo un luogo fisico: è diventato sia scenario che protagonista, una metafora di una condizione esistenziale. Ha vari ruoli: è sfondo, è uno specchio per chiunque legga il libro ma, allo stesso tempo, è protagonista. Il personaggio che racconta, in prima persona, svelerà molte cose di sé stesso ma non verrà mai descritto, proprio per far sì che ognuno possa rivedersi nel protagonista e riflettere sulla vita stessa, sulle condizioni esistenziali. E’ un uomo, si chiama Sandro, eppure il personaggio principale del libro è una donna, Sveva, attorno alla quale si districa il soggetto dell’intero romanzo. (edito da Duck Edizioni, 2019)

4. Chi sono i tuoi maestri e le tue fonti di ispirazione e cosa prendi da ognuno di loro?

Il primo che mi ha fatto incontrare l’arte è stato l’Architetto Antonio Rodriguez, aveva lo studio a Lugano ma aveva una casa al Lido dove organizzava un happening chiamato Landfall Art Center, partecipare a queste occasioni mi ha dato parecchi stimoli. Antonio avevo questo studio di progettazione a Lugano ma si ritagliava almeno un’ora al giorno per dipingere e scrivere, riteneva fosse fondamentale per sentirsi appagato e pienamente realizzato. Questo mi ha insegnato ad inserire l’arte nella mia vita, avevo 21 anni quando ci siamo conosciuti, era il 2002. Con lui ho fatto la mia prima mostra a Lugano. In più posso aggiungere un aneddoto sul mio nome: mi chiamerei solo Riccardo Roiter, è lui ad aver inventato il mio nome con doppio cognome, appunto, Riccardo Roiter Rigoni, prendendo la terza R dal cognome di mia mamma. È mancato nel 2011 e anche in sua memoria ho voluto mantenere le tre R, sono 15 anni che mi firmo così. Un’altra persona rilevante per il mio percorso artistico è stato Italo Ballarin, un fotografo cugino di mia madre, mi ha dato un consiglio fondamentale: ”non guardare gli altri, non rifarti a nessuno ma fotografa con il tuo istinto”, solo dopo ho iniziato un percorso di affinamento a livello tecnico, inizialmente mi ha consigliato di seguire solo l’istinto senza pensare a cosa avrebbe fatto un altro, la tecnica, poi, serve a perfezionare il gesto ma arriva dopo, l’approccio deve essere libero, scevro dal pensare alla riproduzione di uno stile di altri; ha saputo trasmettermi la libertà nell’approccio alle cose.

5. In generale cosa pensi degli artisti di oggi e del mondo dell’arte contemporanea? 

Penso che tra gli artisti di oggi ce ne siano tanti validi ma penso anche che ci si debba concentrare meno allo stupire attraverso la sensazionalità istantanea di cui non resta niente, a lungo termine; bisognerebbe pensare a realizzare qualcosa di più coinvolgente e capace di restare nel tempo per tutti i fruitori dell’arte. Sarebbe un bene ritornare ad essere genuini senza pensare a quello che sarà la critica e la vendita delle opere; ormai si guarda troppo all’aspetto commerciale o allo scandalo, a livello emozionale lascia pochissimo, bisognerebbe spostare l’attenzione verso qualcosa che possa rimanere. Si pensa molto al giudizio, con una continua ansia di prestazione, non si pensa più al fruitore ma al giudizio ufficiale e non al messaggio che si vuole mandare. Bob Noorda, un grafico eccezionale, che ha fatto la storia, diceva sempre: “Prima di far qualcosa chiediti cosa vuoi dire e se la gente riuscirà a capirti”. La fotografia come tutta l’arte è fatta di visibile e di invisibile, la parte che fa vibrare l’opera è l’invisibile, senza l’emozione dietro l’opera, nella realizzazione della stessa, mancherà quella vibrazione. Faccio un esempio banale riferendomi al doppio periodo di Battisti con Mogol e, poi, con Panella, i primi dischi vengono ancora cantati perché possedevano quell’invisibile capace di strappare tutte le nostre emozioni, gli ultimi sono quasi dimenticati. Questo vale per tutta l’arte e serve a coinvolgere i fruitori.

6. Cosa vuoi raccontare e trasmettere attraverso la vita presente nelle tue immagini?

Celebro la vita e il fatto di essere di passaggio, nulla più della fotografia può fermare il tempo ed è proprio quello capace di darci la consapevolezza del nostro essere in un viaggio continuo. Questo, però, non deve farci pensare agli aspetti negativi della vita, deve, invece, insegnarci a godere del momento, della gioia di vivere; soprattutto in una società come la nostra in cui non siamo mai fermi, il potersi fermare a guardare un attimo della vita significa renderle onore.

7. Da dove si sviluppa il tuo processo cognitivo? Quali sono le tue emozioni nell’atto creativo e quelle che vuoi trasmettere al tuo pubblico?

Arrivano sempre dal desiderio del sentirsi in sospensione, tra il materiale e l’immateriale, tra lo spirito e la materia, tra il concreto e l’onirico, tra quello che si realizza e i sogni. Si viaggia sempre tra visibile e invisibile; parte tutto dal desiderio di raccontare uno stato d’animo, siamo fatti per camminare, non per girare in cerchio, siamo fatti per andare avanti seguendo questo flusso costante che è il tempo, in cui siamo inseriti a livello limitato, con la possibilità, però, di percorrere questo viaggio meraviglioso. Dobbiamo interrogarci su come stiamo spendendo il nostro tempo, è un ragionamento legato al dare un senso alla vita trovando ognuno la propria vocazione e la propria realizzazione, non bisogna mai accontentarsi di vivere su un binario, bisogna scendere dal treno, camminare e arrivare dove ti porta il destino.

8. Essere un artista, oggi, non è tra le scelte più semplici: Cosa ti ha spinto a fare arte e perché?

L’inquietudine è ciò che genera l’arte. Una volta accettato questo stato emozionale ha luce una calma interiore con la quale la osservi il mondo in modo equilibrato. Solo così si può creare la serenità; senza calma si perde il controllo ma, la stessa, arriva, proprio, dall’inquietudine. È il punto di partenza, ti permette di danzare assieme alla calma, a volte sei il Cavaliere altre la Dama, è una danza che ti trasporta, è indispensabile rimanere coscienti e consapevoli di ciò che si sta facendo, altrimenti si rischia di pestarsi i piedi da soli. La calma è uno stato di grazia: anche il cecchino sembra calmo nonostante l’inquietudine; calma significa solo saper mantenere una propria lucidità.

9. Cosa significa Arte? Cosa significa Fare Arte? Cosa significa Osservare l’Arte?

L’arte credo sia il ponte che unisce il materiale allo spirituale. Quando una persona vuole elevarsi deve percorrere il viale dell’arte, è un linguaggio, ogni arte ha il suo e la sua frequenza. L’Arte va oltre, è il mezzo che ti permette di catturare ciò che sta oltre, è la chiave di lettura dell’invisibile. Fare arte significa mettersi in ascolto di sé stessi, delle cose, significa diventare degli artigiani del linguaggio, per trasmettere qualcosa attraverso la propria personale espressione. Significa essere sempre in ascolto, fare in modo di esprimere un messaggio, una sensazione. Significa emozionarsi ed emozionare. Osservare l’arte vuol dire avere il coraggio di aprirsi a ciò che l’opera rappresenta, mettersi al suo cospetto con la propria vita e la propria esperienza per scoprire come questa può entrare a farne parte: è come cavalcare un’onda, puoi salirci o esserne travolto, non importa, ciò che conta è lasciarsi chiamare in causa, accettare di non essere spettatori dell’arte ma protagonisti dell’arte stessa. Bisogna entrare nell’opera, fermarsi e pensare, ragionare, senza mettersi bende davanti agli occhi.

10. Se potessi guardare nel tuo futuro cosa riusciresti e vorresti vedere?

La realizzazione di tante idee che ho in cantiere, sono veramente tante. Posso dire di avere la mentalità del maratoneta, non veloce ma costante, ogni giorno serve fare almeno un paio di passi in avanti, solo così, con calma, vorrei vedere realizzati tutti i miei progetti.

11. Il tuo ricordo più bello legato al mondo dell’arte?

Forse quando ero ancora bambino e non mi interessava niente dell’arte, mi sono trovato a Firenze davanti ai Prigioni di Michelangelo, avevo 12 anni. Il David non mi diceva niente ma queste figure incastrate mi hanno molto colpito, mi sono tornati in mente spesso, mi hanno dato una lezione fortissima: dentro ad ogni cosa ci sono altre cose, siamo noi a doverle liberare dal superfluo. Quelle statue non sono finite sei tu a doverle finire con la tua mente, si crea, così, il rapporto tra detto e non detto che è molto più efficace del dire tutto. Credo sia necessario lasciare sempre all’osservatore la possibilità di terminare l’opera con un pezzo di sé. Il non finito mi ha sempre trasmesso molto di più del finito, anche una splendida statua di Canova sembra fredda rispetto ai Prigioni, li definirei: un vulcano.

Il bacio di un limpido tramonto capace di riportare a galla sensazioni emozionali assopite dalla razionalità moderna. Un istante, ne basta uno, sarà quello il momento per ritrovare sé stessi.

Dott.sa Arianna Forni

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