C’è sorriso e sorriso, risata e risata. Che cosa ovvia, che banalità. Assurdo dover fare questa distinzione; inutile doverlo raccontare. Lo sappiamo già: c’è chi ride per imbarazzo o circostanza, chi sorride per le stesse incessanti ragioni, oppure c’è chi ride di gusto, spontaneo e divertito e chi sorride felice di qualcosa di bello ma troppo timido per lasciarsi andare. Eppure si ride anche per non piangere, si ride per rifiutare di vedere qualcosa di brutto, si ride per chiudersi in una fortezza inespugnabile in cui, quella risata, ci proteggerà dalle malelingue, dalle stilettate nella schiena; si sorride per non commuoversi, per rendersi piacevoli anche se, dentro di noi, vorremmo gridare di rabbia o di dolore, il sorriso può essere una trincea, valicabile solo da uomini sensibili, difficilmente superabile dalle persone insipide, da quelle che “ho già i miei problemi e non voglio accollarmi anche i tuoi”, ed è, quindi, protettiva.
Ridere spesso è uno sfogo liberatorio, aiuta a ritrovare equilibrio oppure a perderlo per un attimo al fine di riconquistarlo con maggiore forza, all’interno della nostra fortezza. Sorridere a volte stona, possiede una nota malinconica dentro di sé, è davvero una trincea in cui, ognuno di noi, spera di incontrare qualcuno sufficientemente umano da riuscire ad entrare ma, alla fine, resta solo una smorfia su un volto gentile con tanto da dire ma senza parole per farlo.
Marilyn Monroe rideva e sorrideva sempre. Era bellissima a detta di tutti, era l’icona sensuale degli anni ’40, biondissima, viso perfetto, rossetto sempre rosso, carnagione chiara, come volevano i suoi tempi, e una felicità sprigionata attraverso ogni movimento, attraverso gli occhi e attraverso la bocca, con grandi sorrisi e risate spontanee. Nasce nel 1926 e muore, per overdose di barbiturici, nel 1962. Aveva 36 anni. Il caso è stato chiuso come suicidio, non che se ne avesse la certezza ma non c’era motivo di creare allarmismo, stare troppo dietro alla questione avrebbe destato sospetti creando preoccupazione. Era sembrato più immediato chiuderla così: suicidio. Tanto di artisti morti di overdose ce n’erano già stati, non sarebbe stata né la prima né l’ultima. Pare così strano si trattasse davvero di suicidio. Lei, così bella, così famosa, così amata dal suo pubblico e, diamine, così felice, così trincerata nel suo meraviglioso sorriso. La scena dell’abito bianco, nel film “Quando la moglie è in vacanza”, del 1955, è diventata un’icona madre del cinema internazionale; tutti saprebbero riconoscerla, tutti erano rimasti a bocca aperta davanti a quelle gambe osè, per gli anni ’50, e quel sorriso considerato provocante ma dal fascino incredibile.
Chissà perché, chissà cos’è successo in quel 5 agosto 1962. Non lo sapremo mai e non siamo qui per aprire misteri o sindacare sui fatti per come ci sono stati raccontati. Resta solo quel meraviglioso sorriso e quelle risate, spesso insensate, che fanno di lei un simbolo di bellezza gioiosa.
Nemmeno Andy Warhol ha potuto resistere a quel fascino. Il suo stile artistico POP, appunto Pop Art, lo ha reso uno degli artisti più influenti del XX secolo. Aveva qualcosa in più degli altri, era in grado di rendere al meglio ciò che era POP attraverso immagini famose, riviste e rivisitate secondo un nuovo punto di vista. Warhol prendeva qualcosa di noto per renderlo nuovamente POP attraverso la sua arte, estrapolando l’immagine primaria dal ricordo che si aveva di essa, in modo da consegnargliene un’altra: la sua.
Marilyn Monroe – Andy Warhol – 1962
Ormai questa Marilyn è la vera Marilyn. Andy Warhol, un genio, è stato in grado di trasformare una vera icona degli anni ’40-’50, riportandola ad essere una nuova icona degli anni ’60, con una sola differenza: ora porta il suo nome. Amarezza di un sorriso sprovvisto di sapienza, fino al momento della resa catartica di un finale a dir poco tetro.
Marilyn Monroe – Andy Warhol – 1962
Un’unica immagine, mille colori. L’ha resa finta, una bambola non più l’attrice meravigliosa di prima. Ha saputo cogliere la palla al balzo proprio nell’anno della sua triste morte, il 1962, ma perché? Era un genio perché solo un genio avrebbe potuto pensare di fare qualcosa di simile ma, d’altra parte, le tre S fanno notizia da sempre e da sempre sono carta moschicida per il pubblico: soldi, sangue e sesso. In Marilyn c’era tutto e Warhol ha portato quel tutto su una tela. La fatica di compiere il gesto, di colorare una fotografia, non è stato molto differente da quello che fanno i bambini all’asilo quando pitturano le sagome, ancora bianche, all’interno dei loro grandi quaderni da disegno. Ha fatto di una cosa semplice l’emblema stesso di uno stile artistico: la PopArt. Dissento e mi escludo dalla massa di affezionati a questo artista perché, a mio modestissimo avviso, ha giocato sporco. Ha rubato un sorriso a una donna bellissima, morta troppo giovane per potersi raccontare fino in fondo. Era bella davvero e questo miscuglio di colori non le rende merito, la ridicolizza.
Andy Warhol in London in November 1975. Photo by AGIP-RDA-Getty Images
Lui così “quite horror”, così spaventoso e inquietante, così poco felice, poco ridanciano, poco incline all’umorismo, così diabolico da trovare nel teschio colorato di Marilyn Monroe la sua eterna fortuna. In un volto felice è riuscito a coprire le sue innumerevoli magagne, le sue probabili insicurezze. Si è dato un tono e ha vissuto sugli allori di un’idea mozzafiato. Già: un’idea in grado di mozzare il fiato, seccare le fauci e spiazzare. D’altra parte l’arte è arte e chi compra e chi critica sa sia cosa bisogna comprare, sia cosa risulta imprescindibile affermare. Un genio, ripeto. Un genio che non mi piace ma ha saputo trovare una strada ancora vergine. Ci sarà stato un motivo se nessuno si era ancora messo a giocare con i morti, ovviamente “parlandone da vivi”, come dicevano i nostri vecchi saggi.
A questo punto ci sarà ancora chi riderà di gusto e chi sorriderà per imbarazzo, ci sarà sempre chi riderà per non piangere e chi sorriderà compiaciuto. Le cose non devono cambiare, non possono farlo; il genere umano ha reazioni umane più o meno comprensibili. Ciò che fa male è aver sfruttato le tre S giornalistiche per rendere famosa un’arte e dare un’icona al proprio personale nome d’autore. Chissà se Marilyn, nell’aldilà, ne è contenta e soddisfatta. Probabilmente sta ancora sorridendo.